Non una sconfitta, ma …

La conclusione della trattativa sul rinnovo del contratto dirigenti industria lascia il dubbio sulla reale corrispondenza dell’intesa alle attuali aspettative delle imprese e dei dirigenti

Luca Luchesini 

Consigliere ALDAI-Federmanager
I colleghi avranno già avuto modo di informarsi in altri articoli sui contenuti e sulle opinioni più o meno favorevoli sul rinnovo del recente contratto, e non è intenzione dell’autore tornare su questi argomenti. In quanto membro della delegazione trattante, ritengo che alla fine questo fosse il meno peggiore dei rinnovi possibili (e so che questo parere non è condiviso dalla maggioranza dei colleghi di Milano), ma non intendo qui soffermarmi su un dibattito già troppo prolungatosi e ormai passato.
Desidero invece portare a conoscenza dei lettori alcuni elementi di sfondo della trattativa, a prima vista delle mere note di colore per chi, come me, mai aveva frequentato i corridoi di Confindustria, ma che invece, a mio modesto avviso, sono altrettante spie dei motivi profondi che non ci hanno permesso di centrare alcuni obiettivi strategici come la cogenza dello MBO e, con un po’ più di azzardo, dare un contributo alla soluzione dell’annoso problema della scarsa produttività del sistema industriale italiano.
Iniziamo da luoghi e personaggi. A viale dell’Astronomia si respira un’atmosfera anni Ottanta, con corridoi ricoperti da boiserie da chalet svizzero, in bizzarro contrasto con i maestosi pini marittimi dell’EUR che si intravedono oltre le finestre. In questi ambienti ovattati si muovono felpati funzionari rigorosamente incravattati, in un taglio sartoriale che omogeneizza i dirigenti di lungo corso e i neolaureati appena immessi in servizio. Questi ultimi, danno l’impressione di non sapere se considerare il loro lavoro un privilegio per l’appartenenza a un’istituzione dal prestigio quasi curiale o una scialuppa di salvataggio purchessia dalla mancanza di opportunità che affligge molti loro coetanei. 
Passiamo poi alle riunioni, con decine di persone (fino a oltre quaranta, tra le due delegazioni, con chiara maggioranza confindustriale) sedute attorno al tavolone della trattativa, per assistere a un dialogo che si svolge tra pochissimi degli astanti e decisioni prese in circoli ancora più ristretti. Ma perché tanto dispendio di energie? Per ascoltare relazioni, compulsare grafici e tabelle, quantificare fenomeni e ipotesi? Nulla di tutto questo, la trattativa si riduce all’esposizione di richieste testuali, con deduzioni e controdeduzioni, perlopiù di stampo ideologico e poco sostenute da numeri, e, nelle fasi finali, alla lettura ed esegesi delle ipotesi di accordo.
Tutto il processo sembra insomma la plastica dimostrazione delle tesi sulla Public Choice del compianto Nobel per l’economia James Buchanan, ossia come le pur necessarie strutture istituzionali (confindustriali e nostre nella fattispecie, le tesi originali di Buchanan riferendosi invece alle burocrazie statali) finiscano alla fine per costituirsi come una terza parte indipendente che persegue fini non sempre allineati con quelli dei rappresentati. In pratica, discussioni interminabili sull’assetto e il funzionamento degli enti bilaterali da esse concepiti e gestiti, e qualche scampolo delle ultime sedute per parlare di retribuzioni e potere d’acquisto della platea degli iscritti, ovvero il tempo minimo necessario per registrare le distanze e demandarne la risoluzione al massimo livello politico (che per fortuna nostra questa volta si è dimostrato molto più autorevole ed efficace). 
L’unica ragione, essenziale, di questa costosa ritualità pare insomma essere quella di costruire il consenso all’accordo, visto che tutti avevano uno strapuntino al tavolo, ed un consenso che si capisce entrambe le organizzazioni sanno essere più difficile vendere internamente che difendere con la controparte. Non si capisce altrimenti come mai questa trattativa, primo caso nella storia di Federmanager, ha visto l’allargamento della delegazione trattante anche a tutta la Commissione welfare. Peccato che all’aumentato numero di partecipanti al tavolo non sia corrisposto un pari incremento dei dati a disposizione degli stessi sulle retribuzioni della categoria, ma ci si sia limitati (ed è stato già un passo avanti rispetto all’ultima, catastrofica tornata del 2014) a quantificazioni di massima del costo delle singole voci della piattaforma.
Sul tema della condivisione delle informazioni si sono anzi registrati spiacevoli incidenti di diniego di inoltro di bozze di trattativa, quasi che le strutture centrali temessero chissà quali fughe di notizie. Che poi inevitabilmente avvengono: un leak confindustriale ha diffuso il testo finale dell’accordo subito dopo la sua firma. Se già Lutero definiva i pensieri ‘zollfrei’, spiace registrare l’uso di mezzi e mezzucci per limitare la diffusione delle informazioni ai tempi di Internet, specie tra coloro i quali ne dovrebbero far uso per difendere gli interessi degli associati. 
Troppi orpelli e bizantinismi, ma necessari dato il contesto italiano? Forse, sta di fatto che lo scrivente non può che registrare l’enorme distanza dal modo con cui ha visto affrontare negoziazioni e trattative, non solo a Parigi o Madrid, ma anche a Riad, Mumbai o Mosca. Qui (ovvero nel mondo del business globalizzato, usiamo pure la parolaccia) le riunioni si tengono tra i veri stakeholders (che non sono mai più di una decina, e se ne riconosce la responsabilità) e si discute su numeri prima che su concetti.
Purtroppo, nulla di tutto questo avviene nel corso della trattativa per il rinnovo del contratto dei dirigenti tra Confindustria e Federmanager. Niente dati oggettivi sull’andamento delle retribuzioni dei dirigenti per settore e area geografica, niente considerazioni su come queste siano o non siano agganciate all’aumento (basso) della produttività. Anzi, appena si parla di introdurre più parametri cogenti nella retribuzione dei manager (il famoso MBO), levata di scudi, non sia mai che l’estro e la visione dell’imprenditore siano anche solo potenzialmente minacciati per via contrattuale dalla necessità di misurare azienda e management su numeri e non solo umori e stati d’animo.
Viene quindi da pensare (ma il lettore consideri questa nemmeno un’opinione, ma addirittura una malignità dello scrivente) che, nonostante quanto affermato in decine di convegni ed eventi pubblici, la bassa produttività italiana sia anche una conseguenza dell’atteggiamento predominante ai vertici della massima associazione imprenditoriale italiana, ancora ferma al ragionamento astratto per concetti ideologici alla Croce piuttosto che alla quantificazione dei fenomeni alla Fermi, che trova poi uno specchio nelle pari strutture delle associazioni sindacali, quorum quella dirigenziale.
Che fare, quindi? Ora abbiamo davanti a noi 5 anni, con una cornice contrattuale in oggettivo miglioramento rispetto alla precedente. Usiamoli per iniziare ad allenarci a quantificare, subito, facendo partire una buona volta l’Osservatorio (previsto dal 2004 e mai attuato) e ogni altra iniziativa analoga si voglia inaugurare nella neonata 4.Manager. Questa tornata ha dimostrato che le migliori intenzioni, la buona volontà di tutti e nemmeno parecchi mesi di preparazione (Milano partì nel 2018) e concertazione tra le varie territoriali sono state sufficienti a produrre il cambiamento culturale che serve, a noi e alla rappresentanza delle imprese.
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