Un Paese vocato all’export
Le esportazioni industriali per far ripartire la crescita dell’Italia
Renato Signoretti
Consigliere ALDAI - Federmanager
Nel nostro Paese la produzione manifatturiera industriale è sostenuta in via principale da esportazioni in costante crescita; esse hanno raggiunto nel 2017 un importo complessivo pari a 448 miliardi di euro con incremento del 7,4% sul 2016. Il saldo positivo export-import è stato di 47,5 miliardi di euro, di poco inferiore al surplus record del 2016, pari a 51,6 miliardi di euro.
Come si desume da un recente articolo di Marco Fortis, apparso a febbraio sul “Foglio”, i principali settori in crescita rispetto all’anno 2016 sono risultati quelli inerenti i prodotti farmaceutici (+16%), gli autoveicoli (+11,3%), i metalli e prodotti in metallo (+8,9%), e i prodotti alimentari e bevande (+7,5%).
L’export italiano costituisce da anni il punto di forza del sistema industriale, mentre negli ultimi anni si è grandemente ridotta rispetto al massimo storico raggiunto nel 2008 la quota prodotta della manifattura destinata ad alimentare i consumi interni. Come coniugare il virtuoso procedere dell’export con un rafforzamento della domanda nazionale interna?
La presente proposta si basa sulla seguente strategia: rendere disponibile, a livello nazionale, una quota maggiore di redditi complessivi da lavoro dipendente, in particolare rispetto alla loro decisa compressione verificatasi negli anni recenti (il monte redditi si è infatti grandemente ridotto negli ultimi dieci anni).
Dal “Salario di produttività” al nuovo “Patto per il lavoro”
Essenzialmente che cosa soprattutto si chiede al sistema industriale produttivo italiano? In una parola, il sistema ha bisogno per crescere di essere ancora più reattivo e maggiormente flessibile alle richieste di mercato, in modo particolare dall’export.
Immaginiamo di proporre che le imprese esportatrici possano utilizzare un numero di ore supplementari, oltre a quelle contrattuali, pari a 150 massime nell’arco di un anno, da definire a livello nazionale tramite la stipulazione fra gli attori sociali e le istituzioni di un accordo quadro, denominato “Patto per il lavoro”, senza dover passare preliminarmente da una contrattazione preventiva territoriale/aziendale di secondo livello.
Tale contrattazione di secondo livello, già ora possibile, avrebbe comunque luogo a valle di apposita comunicazione alle parti sociali da parte dell’impresa ed all’avvio dell’attività produttiva aggiuntiva, avendo come riferimento l’accordo quadro nazionale.
La flessibilità oraria poggerebbe sull’utilizzo dello strumento contrattuale denominato “Salario di produttività”, legislativamente già previsto1, e da modificare ulteriormente attraverso il suo inquadramento in un nuovo “ Patto per il lavoro”. Il “salario di produttività”, che è entrato in uso con la legge n. 228 del 2012, si è sviluppato parecchio negli ultimi anni; attualmente in Italia sono attivi più di 15.650 contratti circa (dicembre 2017), stipulati a livello territoriale/locale. Il processo di diffusione di questo strumento è però decisamente lento, ci sono voluti infatti cinque anni per raggiungere tale numero di contratti2.
Esistono ampi margini di maggiore impiego dello strumento “Salario di produttività”, dato che le imprese manifatturiere esportatrici sono in Italia almeno 88.000, di cui 1.180 con almeno 250 addetti, e 87.240 con meno di 250 addetti (dati Eurostat 2015). Le 88.000 imprese manifatturiere esportatrici fanno capo principalmente alle organizzazioni datoriali Confindustria e Confapi che hanno quasi trecentomila soci iscritti (dati Inps di fine 2017).
La sottoscrizione tra imprese, sindacati e Governo del nuovo “Patto per il lavoro”3 dovrebbe pure stabilire il periodo di validità sperimentale dell’accordo, che potrebbe essere inizialmente di un anno; esso dovrebbe avere validità anche per le imprese non dotate di rappresentanze sindacali, come avviene ora per il “Salario di produttività”.
Questo accordo nazionale, agendo da quadro di “garanzia”, eliminerebbe la necessità di definire accordi preventivi impresa per impresa o territoriali, come previsto dall’attuale strumento “Salario di produttività”. Gli accordi verrebbero infatti stipulati a seguire la prima richiesta di attività supplementare, entro un termine massimo stabilito dalla data di comunicazione dell’impresa alle rispettive organizzazioni imprenditoriali/sindacali ed ai propri lavoratori, della volontà di utilizzo del “Patto per il lavoro”.
Del nuovo “Patto per il lavoro” potranno usufruirne tutte le imprese, in particolare quelle che principalmente esportano, qualora avessero l’esigenza di garantire la consegna dei loro prodotti in tempi più stretti o quella di soddisfare picchi non previsti di domanda.
Il vantaggio si estenderebbe in modo “quasi automatico” anche ai subfornitori sottesi alle rispettive catene di produzione, semplicemente avanzando, a loro volta quando ne necessitassero, ai propri lavoratori ed alle rispettive organizzazioni sindacali/datoriali territoriali di riferimento, la richiesta di applicazione del “Patto per il lavoro”.
Vantaggi per tutti: lavoratori, datori di lavoro ed organizzazioni sindacali
A fronte del maggiore impegno lavorativo (fino alla saturazione delle 150 ore), i lavoratori disporrebbero di un maggior reddito/potere di acquisto che, nel tempo, sarebbe di grande giovamento alla ripresa dei consumi interni che ristagnano da tempo; ciò contribuirebbe a potenziare la ripresa economica in atto.
Va pure considerato il fatto che il “Salario di produttività” ha per legge una trattenuta fiscale favorevole in quanto limitata al solo scaglione del 10% (cedolare secca), che andrebbe estesa al “Patto per il lavoro”; ciò non potrà che incontrare il favore dei lavoratori, dato che essi disporranno di un maggior reddito, e quello delle organizzazioni sindacali, in quanto nel tempo il Patto provocherà un’accelerazione economica con conseguente creazione di nuovi posti di lavoro.
Il vantaggio da parte delle imprese manifatturiere sarebbe invece costituito dal fatto di poter essere maggiormente flessibili nell’adattare i propri processi produttivi, con beneficio sui loro fatturati ed utili, favorendo pertanto le possibilità di investimento.
Di certo occorrerà superare il problema legislativo costituito dal fatto che, allo stato attuale, il salario di produttività annuo non può superare, come reddito, il tetto in valore assoluto di 3.000 euro o di 4.000 euro, quest’ultimo nel caso in cui i lavoratori vengano coinvolti in progetti di partecipazione societaria.
La legge di stabilità 2017 (G.U. n. 297 del 21 dicembre 2016) ha pure ampliato a 80.000 euro (precedenti 50.000 euro) il limite di reddito dei lavoratori che possono accedere e venire coinvolti nell’uso del salario di produttività.
Pur avendo ampliato il limite di reddito di coloro che possono usufruire dello strumento contrattuale, i suddetti limiti di 3.000 e 4.000 euro non sono in grado di consentire il raggiungimento del reddito corrispondente alle 150 ore previste dal “Patto per il lavoro”. La soluzione potrebbe essere quella di prevedere un limite percentuale massimo del salario base annuo contrattuale, anziché un limite annuo in cifra fissa per tutti.
Così si potrebbe allargare l’applicabilità a tutti i lavoratori, fino a comprendere i manager/dirigenti delle varie imprese, ora praticamente esclusi dall’utilizzo dello strumento “Salario di produttività”.
Nella sostanza si tratta di ripercorrere il cammino virtuoso percorso nella fase di “miracolo economico” italiano degli anni ’60, quando allo sviluppo notevole degli investimenti si accompagnò una eccezionale mole di lavoro, svolto da parte di tutti con grande spirito di adattamento.
“Patto per il lavoro”: la proposta in sintesi
Il nuovo strumento contrattuale potrebbe avere una durata temporale sperimentale di un anno, nel quale la singola azienda esportatrice ed i relativi subfornitori coinvolti, per specifiche esigenze di accelerazione produttiva, potranno richiedere alle proprie maestranze ed avvertendo le rappresentanze sindacali/datoriali, prestazioni aggiuntive rispetto a quelle contrattuali, sino ad un pacchetto massimo di 150 ore, vale a dire, una media mensile di 16 ore circa. Tali ore di lavoro potrebbero, per esempio, essere individuate in due giornate o quattro mezze giornate di sabato al mese od altre modalità alternative.
Il “Patto per il lavoro” costituirebbe un “accordo quadro” a livello nazionale, sottoscritto ex ante dalle organizzazioni datoriali, sindacali e Governo, attivabile subito da parte delle imprese e da confermare, ove presenti rappresentanze sindacali, con successivi accordi di secondo livello, da portare a termine in un tempo massimo prestabilito dalla data di prima attivazione da parte dell’impresa nel periodo di vigenza del Patto.
La morale è che occorre ritornare ad un momento di “concertazione” tra le forze lavoro del Paese, organizzazioni imprenditoriali e sindacali, come quello recentemente avvenuto a febbraio 2018 con la stipulazione dell’accordo che stabilisce una cornice di riferimento per i prossimi rinnovi contrattuali di categoria e per le nuove relazioni industriali.
La proposta di “Patto per il lavoro” richiede pure il coinvolgimento del Governo per lo stabilimento dei provvedimenti fiscali necessari alla sua attuazione operativa. Senza una “cabina di regia” e l’ottenimento del consenso delle parti sociali, la ripresa economica in Italia non potrà consolidarsi e procedere in modo più sostenuto.
Come dirigenti industriali, parte attiva ed insostituibile del processo produttivo, rileviamo che la nostra organizzazione Federmanager non dovrebbe mancare nella citata “cabina”. Tutti insieme potremmo dare un contributo davvero fattivo alla ripresa economica nazionale
e migliorare la coesione sociale nel mondo del lavoro.