Gestiamo insieme il cambiamento
L’opinione di Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl, sulle sfide delle trasformazioni epocali che caratterizzeranno il mondo del lavoro.
Intervista di
Franco Del Vecchio
Segretario CIDA Lombardia - lombardia@cida.it
Quale impatto avranno le nuove tecnologie sul lavoro?
«Nella rivoluzione cognitiva che stiamo vivendo, le persone avranno la possibilità di dedicarsi e sviluppare maggiormente le competenze intellettuali utilizzando le tecnologie per svolgere lavori manuali grazie a strumenti sempre più sofisticati per aumentare non solo la produttività, ma anche per realizzare prodotti e servizi prima impensabili. Si svilupperà un rapporto virtuoso e progettuale, e non più fordista, con la macchina. I riferimenti del passato dovranno essere sostituiti da nuovi modelli di relazione: le 8 ore di lavoro classiche suddivise in 40 settimanali non saranno più probabilmente il modello dell’industria tecnologica dei prossimi anni. Nuovi tempi e spazi di lavoro consentiranno una maggiore conciliazione vita-lavoro».
A che punto siamo in Italia?
« L’Italia è un Paese anti-industriale affetto da iperideologizzazione, giustizialismo e sindrome del no con effetti molto pesanti sul lavoro e sulle nostre politiche economiche e sociali. Le aziende continuano a delocalizzare, nonostante il decreto, non perché abbiamo un costo del lavoro elevato, i nostri metalmeccanici sono i migliori al mondo, ma perché ci sono costi legati, carenze di infrastrutture, una burocrazia asfissiante e una politica schizofrenica a livello locale quanto nazionale (un caso su tutti l’ex- Ilva di Taranto oggi ArcelorMittal) un sistema giudiziario lento e inefficiente. Il Paese avrebbe bisogno di una classe politica capace di immaginare il Paese tra 30, 50 anni e non alle prossime elezioni. Bisognerà mettere a fattor comune le migliori esperienze, conosco centinaia di aziende che nonostante “l’ecosistema paese” non aiuti a fare impresa lottano e ce la fanno, specie tra le piccole e medie imprese che rappresentano la spina dorsale del nostro sistema produttivo. Le nuove tecnologie a partire dall’AI possono dare un contributo determinante al loro sviluppo».
Cosa dovremmo fare?
«Dovremmo imparare a guardare con fiducia al futuro, investendo in formazione e tecnologia, creando ecosistemi favorevoli alla creazione di imprese e lavoro nel Paese. Il Piano Industria 4.0 promosso dall’ex ministro Calenda e i provvedimenti sull’alternanza scuola-lavoro sono state le poche iniziative lungimiranti degli ultimi vent’anni di governo in materia di innovazione del lavoro. Solo nel mio settore abbiamo perso oltre 600mila posti di lavoro per assenza di investimenti nelle nuove tecnologie che genera perdita di competitività e crisi aziendali. Per invertire la rotta serve un cambio di mentalità, una strategia condivisa e inclusiva per il futuro del Paese».
Ha ancora senso la netta distinzione tra lavoro dipendente e autonomo?
« Le persone saranno sempre più “ibridate” con la tecnologia, basti pensare ai nostri smart phone. Siamo abituati a pensare al lavoro diviso in due macro categorie: o autonomo o dipendente ma bisogna guardare oltre, a contratti smart e ibridi che siano capaci di tutelare le persone e garantire, al contempo la funzionalità dell’impresa.».
Come adattare il welfare ai cambiamenti in atto?
«Dobbiamo impegnarci per una dimensione alta del lavoro, quella della conoscenza e della partecipazione, avendo più attenzione a un welfare integrale e intelligente. Pensiamo, ad esempio, alla logica delle learning organization, uno strumento che consente di passare dal lavoro subordinato, in cui contano luoghi e orari, alla formula dell’apprendimento organizzativo che pone al centro la persona con i suoi risultati e competenze, pienamente in linea con l’evoluzione in senso digitale. A livello di contrattazione possiamo fare ancora molto infatti, attraverso gli accordi aziendali, per una diversa e migliore gestione dei tempi e dello spazio, oggi possibile proprio grazie alla tecnologia. Per questo, negli ultimi anni abbiamo lavorato a fondo e realizzato importanti contratti che guardano al futuro del lavoro, dallo smart working ai big data puntare sul li felong learning, valorizzare il potenziale delle persone e riattivare l’ascensore sociale anche attraverso rinnovati sistemi di inquadramento professionale.»
Qual è in questo contesto il ruolo dei sindacati di lavoratori e imprese?
«Imprese, sindacato, scuola: ognuno deve fare la sua parte. Tra qualche anno molti dei lavori che oggi conosciamo non esisteranno più, altri saranno creati. La sfida è quindi traghettare il lavoro organizzato nelle nuove realtà. Senza nascondere che oggi le grandi piattaforme tecnologiche come Google, Apple e Facebook sono “union free” e che in molte delle imprese più avanzate il ruolo del sindacato è marginale. Abbiamo ancora qualche anno di tempo per evitare di essere messi all’angolo. Il ruolo del sindacato diventa determinante, non solo per proteggere il posto di lavoro, ma anche come promotore delle competenze del lavoratore: da job protector a skill developer. A mio avviso le aziende che non fanno formazione generano esternalità negative e dovrebbero essere tassate».
Qual è il ruolo dei manager?
«Purtroppo nel nostro paese il ruolo dei manager sconta lo stereotipo dell’organizzazione del lavoro piramidale degli anni passati. Le nuove catene globali del lavoro impongono invece una visione più ampia e aperta del proprio ruolo più agganciato all’autorevolezza e meno all’autorità. Sarà per questo fondamentale, anche qui, un cambio culturale perché non possiamo rinunciare al contributo di una classe dirigente capace di leggere e interpretare il cambiamento in atto, in questo università, scuole e una cultura della responsabilità sociale e della gestione collettiva sono fattori determinanti. Progettualità e partecipazione le parole chiave per accompagnare le politiche di organizzazione del lavoro in maniera, sostenibile valorizzando il più possibile il fattore umano e il benessere della persona».
01 marzo 2020