ASSEMBLEA NAZIONALE FEDERMANAGER 2018

«Bisogna puntare su competenze qualificate e su manager capaci di governare l’innovazione. La qualità del lavoro di tutti è la sfida più grande che abbiamo dinnanzi»

Stefano Cuzzilla 

Presidente Federmanager
Roma, venerdì 25 maggio, negli spazi congressuali del MAXXI, il Museo nazionale delle Arti del XXI secolo, si è tenuta l’annuale Assemblea, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti aderenti a tutte le forze politiche, gli esponenti delle Parti sociali ed oltre 300 manager.
Nell’occasione sono stati presentati i dati sulla situazione occupazionale del management, elaborati da Federmanager su fonte Inps, da cui è risultato che le imprese industriali con almeno un dirigente in organico sono diminuite del 16% dall’inizio della crisi ad oggi, passando dalle 18.724 unità del 2011 alle 15.742 del 2017. In un mercato sempre più globalizzato e orientato all’innovazione, è sempre più importante il contributo delle competenze manageriali per non perdere competitività.
Significativi gli interventi delle rappresentanze politiche e delle imprese orientati allo sviluppo della fiducia nel sistema Paese.

LA PROLUSIONE IN SINTESI

Stasera vorrei chiedere a ciascuno di voi di guardarsi l’un l’altro dritto negli occhi e di riconoscere, con onestà, che per anni non c’è stato uomo o donna in questo Paese che, interrogato sul domani, non abbia dichiarato di appartenere al “partito del fare”, se non addirittura a quello del “fare presto”.  Di fronte a questo proposito diffuso, chiariamo subito dov’è l’inganno: troppo spesso all’azione si risponde con la contemplazione, ai fatti sono preferite le parole, al posto dei risultati sono offerte promesse. Allora, a ben vedere, gli annunci del fittizio “partito del fare” non avranno portato vantaggio né ai suoi stretti seguaci né tantomeno agli iscritti al “partito del no”, a coloro che sostengono l’abrogazione, l’astensione, la non-azione. Certo è che, in questi anni, il management industriale ha imparato ad andare avanti da sé: non è stato fermo di fronte alla crisi economica, non è rimasto in attesa di provvedimenti dall’alto. 
Noi continuiamo a lavorare.  A contribuire alla crescita delle imprese che hanno bisogno di essere leader. 
Sarebbe bello collaborare con istituzioni che favoriscano la qualità dell’azione, dando continuità ai provvedimenti che stanno funzionando e riformando quelle leggi che invece sono una zavorra per il sistema. Ci piacerebbe, in particolare, indurre il nuovo discorso politico a dialogare con noi su un tema di importanza cruciale per gli equilibri nazionali, per la nostra integrazione in Europa e nel mondo.
Il tema in questione è il lavoro. Possiamo dirlo: il lavoro è l’unico hobby del manager.  E poiché ne facciamo una ragione di vita, pretendiamo che il diritto al lavoro sia assunto a baricentro di qualsiasi strategia di sviluppo integrato.  Se il lavoro è essenzialmente azione, la qualità del lavoro è la sfida più grande che abbiamo dinanzi ed è sull’esercizio di questo diritto che misureremo ogni politica

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Lavoro e demografia

L’Italia è il secondo paese più vecchio al mondo dopo il Giappone. Dato il basso tasso di natalità che ci contraddistingue, conterà presto un numero di abitanti ben inferiore a quello di oggi. 
Negli anni la popolazione in età da lavoro, oltre che a invecchiare, comincerà a ridursi. Secondo l’Istat, nel 2045 l’età media della popolazione in attività sfiorerà i 50 anni. 
Gli attori con cui competere hanno appena iniziato a minacciare l’egemonia occidentale: il continente africano, da solo, raddoppierà la sua popolazione da qui al 2050. Nel 2.100 l’umanità conterà oltre 11 miliardi di persone, di cui 4,5 in Africa, 4,7 miliardi in Asia e solo 653 milioni in Europa (oggi siamo 742 milioni).
Siamo al centro del Mediterraneo, siamo la porta di Europa, ma se non agiamo per riorganizzare il sistema economico e del lavoro, saremo scalzati fuori dalla competizione globale prima del tempo. La non-azione, in questo caso, avrebbe un costo enorme per le future generazioni. Dunque, che fare? 

Innanzitutto non possiamo sostenere la natalità se non sosteniamo il lavoro delle donne. In Italia l’occupazione femminile è in crescita, ma meno che negli altri Paesi europei. Il gender gap è accompagnato da un gap salariale ancora più significativo. 
I dati Federmanager, che abbiamo diffuso meno di tre settimane fa durante il nostro convegno internazionale intitolato “l’altra dimensione del management”, sono lo specchio di un Paese che trascura il grande valore aggiunto della leadership femminile. 
Oltre al peso della tassazione, viviamo il paradosso che alcuni benefici legati alla nascita dei figli vengono meno quando un nuovo reddito entra nel bilancio familiare. Oggi esistono misure che inducono le neo-mamme ad abbandonare il posto di lavoro. Negli ultimi cinque anni sono state circa 115mila a fare questa scelta. 
Quindi, dobbiamo adottare un sistema fiscale premiante per le famiglie. Il fisco deve sostenere il lavoro, non abbatterlo a colpi di tasse. Non è irrilevante come organizziamo il prelievo fiscale. 
Il proposito di una flat tax è una scommessa che, nell’affermare il sacrosanto principio del “pagare meno ma pagare tutti”, va attuato con la necessaria gradualità, riportando a equità una tassazione esagerata del lavoro e delle pensioni.
Dobbiamo riorganizzare il modello economico tenendo conto del valore della silver economy. La componente senior del nostro management sta dimostrando l’importanza dell’ingrediente “esperienza” e non è un caso che gli over 55 rappresentino l’unica classe anagrafica in crescita della dirigenza. 
Dobbiamo anche attrarre immigrazione qualificata. Il nostro Paese resta una meta di transito dei flussi migratori. Deve diventare una meta di destinazione per quei talenti che fuggono dai Paesi d’origine per mancanza di opportunità o più semplicemente per aver salva la vita: giovani laureati e fortemente motivati che Paesi più scaltri di noi, in primis Gran Bretagna e Germania, accolgono a braccia aperte. 
Infine dobbiamo promuovere un piano di alfabetizzazione digitale su larga scala, che abbia un effetto diretto sulla componente più anziana dei lavoratori.

Lavoro e innovazione

È proprio il digitale a costituire il vettore di accelerazione del cambiamento. Il processo di innovazione che investe produzioni e prodotti non è reversibile. L’anno scorso durante la nostra Assemblea discutevamo se i robot e le macchine avrebbero distrutto posti di lavoro. Oggi sappiamo che questo esito è parte di un processo più complesso, che merita l’impegno di tutti per creare nuove opportunità di lavoro qualificato.
Nel 1990 le 3 maggiori aziende produttrici di auto di Detroit da sole avevano un giro di affari di 250 miliardi di dollari, una capitalizzazione di mercato di 36 miliardi e contavano 1,2 milioni di addetti. Già nel 2014 le prime 3 imprese della Silicon Valley avevano stessi volumi d’affari ma una capitalizzazione superiore ai 1.000 miliardi e soltanto 137mila dipendenti. 
La Quarta rivoluzione industriale non è un’esperienza neutrale. Deve essere governata. 
Pertanto, manager, imprenditori e istituzioni hanno una responsabilità precisa sul modello d’impresa che risulterà vincente nei prossimi anni.  A farsi strada è piuttosto una struttura della produzione molto più selettiva, molto più interconnessa, molto più virtuale che fisica. La vecchia immagine del distretto industriale è sostituita dall’intreccio di reti di conoscenza ricerca e sviluppo, produzione e vendita che hanno il fulcro nei territori. 
Il recupero della dimensione territoriale può costituire una grande occasione per il nostro Paese. Lo sta dimostrando la catena di valore che il Made in Italy sta producendo e che traina l’export.  In questo senso consideriamo una opportunità da non perdere la costituzione degli hub digitali dell’innovazione e il raccordo tra mondo dell’impresa e mondo della conoscenza alla base del progetto dei competence center che, con grande rammarico, non vediamo decollare. 
In questi ecosistemi il management svolge il ruolo di collante. Può agevolare la messa a sistema dell’innovazione, determinando un effetto positivo anche in termini di occupabilità. L’occupazione italiana sta registrando un trend positivo. Ne sono complici alcuni indicatori macroeconomici, a partire dalla tenuta del Pil che in tutti i Paesi industrializzati è tornato a crescere, il contenimento del prezzo del greggio, che oggi sta ricominciando a impennarsi, e alcuni interventi della BCE che hanno agito da scudo. Provvedimenti, come la detassazione sulle nuove assunzioni, hanno spinto le imprese a dotarsi di capitale umano. Ma sono provvedimenti spot; mentre noi chiediamo misure strutturali, che possano assicurare tenuta sociale e il patto tra padri e figli. 
Manca del tutto un vero piano sul Lavoro 4.0. Questo intervento doveva partire contemporaneamente all’investimento nei macchinari: mentre Impresa 4.0 ha ridato fiato all’industria, sulle competenze abbiamo accumulato un ritardo colpevole
Il mismatch tra domanda e offerta di competenze si sta aggravando con il paradosso che le imprese che stanno tentando il salto di innovazione non trovano le figure adatte ad accompagnarlo.
Abbiamo raggiunto un equilibrio basso, come è stato giustamente osservato, che stride con la nostra vocazione di grande Paese industriale. All’aumento dell’occupazione non è seguita una più alta redditività del lavoro. Più di 13 milioni di adulti hanno competenze di basso livello. Siamo sotto la media Ue per diffusione di competenze digitali. Il 35% dei lavoratori è impiegato in un settore non correlato ai propri studi. L’innovazione, insomma, sta polarizzando le professioni. E da noi questo è particolarmente accentuato. È fondamentale che il nuovo governo trovi le risorse pubbliche per colmare i gap di competenze digitali che incidono sulla competitività del nostro sistema. Federmanager è già corsa al riparo mettendo in atto un piano di riconversione delle competenze manageriali che agisce lato formazione grazie al supporto di fondi propri e risorse della bilateralità. Siamo pronti a immettere sul mercato 300 manager certificati nelle competenze fondamentali per le imprese che intendono agganciare la ripresa: manager dell’innovazione, manager specializzati nell’export, manager di rete e figure esperte in temporary management. Questo programma è solo uno degli esempi di “azione” che stiamo mettendo in campo per sostenere l’occupabilità della categoria e, di conseguenza, la competitività delle imprese italiane.

Lavoro e dimensione d'impresa

Siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa e siamo il 4 nel mondo per valore aggiunto prodotto dall’industria manifatturiera. Per 8 settori manifatturieri su 14 l’Italia è prima in competitività. 
Rimaniamo increduli e non possiamo nasconderlo a vedere dimenticata questa industria nei programmi di chi si appresta a chiedere la fiducia al Parlamento. 
L’unico riferimento all’Ilva di Taranto apre a scenari inquietanti: non possiamo prescindere dal nostro acciaio e non possiamo abbandonare il Sud, dove gli investimenti, se fatti, avrebbero margini più ampi. L’Italia va avanti solo se unita, solo se rilanciamo l’industria. 
Dobbiamo considerare che i posti di lavoro in più registrati negli ultimi dieci anni sono tutti concentrati nei servizi. Abbiamo perso quasi 900 mila lavoratori nell’industria. Se c’è stato un drenaggio di capitale umano che ha impoverito il settore, dobbiamo imputarlo ad anni di mancati interventi. Troppo a lungo ci siamo trincerati dietro l’idea romantica del genio italiano piccolo e bello: altre nazioni, altri mercati non impiegheranno troppo tempo a produrre meglio e a vendere con maggiore efficacia beni che fino a oggi consideriamo nostra indiscussa prerogativa. Sicuramente non potrà più essere il modello familiare, tipico del particolarismo italiano, ad averla vinta. Non sarà neppure il modello post-fordista della fabbrica 4.0, che immette tecnologia, ma resta ancorato a logiche localistiche e vetero-gerarchiche. Né potranno sopravvivere a lungo le tante aziende “zombie” che detengono ancora il 25-30% dello stock di capitale delle imprese italiane e che, stando sul mercato da oltre 10 anni, mostrano una debolissima dinamica produttiva e di fatto producono a debito. 
L’innovazione non è “l’alta marea che solleva tutte le barche”.  Chi naviga in bonaccia resta indietro. I nostri dati confermano che il numero di imprese industriali con dirigenti in organico sta diminuendo e che a chiudere sono le imprese più piccole. A fronte di un trend negativo che vede ridursi il numero di manager, il numero medio di dirigente per azienda industriale è in leggera crescita, concentrato per lo più nelle realtà medio-grandi. Questo significa essenzialmente due cose: stiamo perdendo le produzioni che non agganciano l’innovazione perché non si dotano della managerialità necessaria e in secondo luogo sta cambiando la figura del manager, che ora è chiamato a gestire più funzioni e più aree, con competenze sempre meno tecniche e specialistiche, e sempre più trasversali. Competenze manageriali nuove, che nulla hanno di simile al direttore di stabilimento o all’ingegnere informatico, che esigono costante aggiornamento e formazione. 
Su un punto dobbiamo essere d’accordo: la presenza in azienda di manager capaci di potenziare l’innovazione è un fattore essenziale per competere.

Lavoro e formazione

Tra le cose da fare subito, dobbiamo menzionare l’investimento nel sistema dell’istruzione, nella formazione continua e nell’aggiornamento professionale. Siamo d’accordo con chi ha affermato che il futuro del lavoro, al pari della tecnologia, non sia un destino. È l’esito di scelte precise che partono dai banchi di scuola. 
Serve una riprogettazione del sistema della formazione superiore e universitaria che tenga conto della domanda di mercato. 
La maggioranza degli studenti italiani si iscrive ancora a facoltà che rendono poco. I dati ci dicono che abbiamo performance scoraggianti per numero di laureati, per disparità sociale nell’accesso universitario e per scarsa connessione con il sistema produttivo. Va sanato anche il gap italiano che penalizza ITS e i corsi di studi in materie STEM. Va resa utile l’alternanza scuola – lavoro, avvicinando lo studente al mondo esterno, eliminando le distorsioni che fanno perdere tempo e risorse. Infine, va incentivato l’imprenditore a considerare la formazione interna una dei pilastri dell’impresa. Il decreto sul credito sulla formazione 4.0 per le attività formative su robotica, cloud, cyber security, Iot, è una misura troppo timida. L’incentivo del 40% è poca cosa per modificare un fattore che è, insieme, economico e culturale. In questo momento storico, i manager hanno una doppia responsabilità: verso se stessi, intraprendendo per primi programmi di aggiornamento professionale, e verso la collettività degli altri lavoratori, facendosi promotori di una cultura dell’innovazione che permea l’azienda a tutti i livelli. 
“Povero l’uomo che, almeno una volta nella vita, non ha rimesso tutto in discussione”, diceva Pascal. Rassicuriamoci: gli strumenti ci sono già, basta metterli a sistema e ne cito soltanto due. 
Il primo è rappresentato dai Fondi interprofessionali, che devono assumere maggiore dinamicità e meno vincoli. Questo bacino di risorse finora è stato poco utilizzato e invece, rilanciando la logica della bilateralità e della sussidiarietà, esso può costituire un volano per accrescere le competenze delle persone orientandole agli obiettivi di business delle aziende. 
Il secondo strumento si chiama politiche attive del lavoro. Qui bisogna rivoltare totalmente il piano del ragionamento. Non sono “attive” le politiche che facilitano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro quando il lavoro lo si è già perso. Il cambio di passo si realizza attraverso l’adozione di politiche attive preventive, che intervengono in anticipo rispetto all’eventuale interruzione di un rapporto di lavoro. Su questo la nostra bilateralità sta già lavorando, dando vita a un Osservatorio finalizzato ad evitare la discontinuità lavorativa che, partendo dall’analisi dei fabbisogni industriali, individua nel concreto la domanda di managerialità.

Lavoro e lavoro globale

Data questa nuova dimensione del lavoro, più discontinua, ad alta complessità, sostanzialmente globalizzata, sono entrati in crisi i parametri classici dello Stato-Nazione. Per un Paese la cui Costituzione si basa sul lavoro, non è una cosa di poco conto. Rispetto al Novecento, quando lo Stato-Nazione occidentale era un perfetto incastro di politica, economia e informazione tutte detenute a livello centrale, oggi sfugge al controllo la dinamica del lavoro, da cui dipende tanto il grado di benessere generale quanto il livello di democrazia sostanziale. 
Il reddito di cittadinanza riuscirà ad abbattere le diseguaglianze solo se sarà orientato a creare lavoro. 
Dalla nostra, abbiamo chances concrete per realizzare un’integrazione economica e un dialogo sociale a livello europeo che sappia rispondere agli effetti di una globalizzazione disordinata, che oggi è esposta agli andamenti della finanza globale, dell’economia dei big data e, cosa di non poco conto, dei cambiamenti climatici. 
Se la chiusura a riccio nei nostri confini non può essere la risposta, al sogno europeo noi non rinunciamo. 
L’Europa continua a rappresentare il più grande esperimento di integrazione della storia dell’umanità. Per questo riteniamo che i trattati multilaterali, con il Canada, la Cina, gli Stati Uniti, debbano trovare un’attuazione. L’economia ha già dimostrato di saper trovare strade alternative quando le si impongono dazi o barriere. La competizione globale non si gioca più tra singole imprese né tra singoli Stati, bensì tra territori interconnessi. Stiamo disegnando una nuova mappa geopolitica in cui viene ridefinita la geografia produttiva. In questa mappa, l’economia insegue variabili come il costo dell’energia, il costo del lavoro, la disponibilità di capitale umano, l’efficienza logistica, l’ubicazione dell’innovazione. 
La nuova Via della Seta è uno dei progetti che testimonia questa tendenza ed è fondamentale che il nostro Paese l’agganci, intercettando le traiettorie commerciali, invece che restare isolato. 
Perciò appartiene alla categoria della non-azione quella posizione politica che sottovaluta l’importanza di porre l’Italia al centro dei traffici o, peggio, che afferma l’inutilità delle grandi opere. 
Le infrastrutture, grandi e piccole, servono a mandare avanti il paese. Vanno realizzate, perché sono la precondizione per collegare le periferie ai centri, il nostro Paese al resto del mondo. 
Oltre al vantaggio logistico che non sfruttiamo abbastanza, dobbiamo consolidare le specificità innate del nostro capitale umano. L’Italia non è prima al mondo per prodotto interno lordo, non per dotazione di materie prime, né tantomeno per estensione territoriale… il nostro Paese è grande per la creatività, il talento e l’inventiva delle sue persone. Pertanto, è strategico utilizzare le risorse umane come leva di attrattività per gli investimenti e i capitali esteri.
L’economia circolare è uno degli esempi più interessanti di settore in crescita, con un effetto moltiplicatore su molti comparti. Il suo sviluppo inciderà positivamente sul mercato del lavoro, richiedendo nuove e più moderne professionalità con competenze ad alto valore aggiunto. 
Questo implica riassegnare un ruolo alle nostre città. Secondo l’Onu, entro il 2050 l’80% della popolazione globale vivrà nei centri urbani. Molto dipenderà da come organizzeremo questo spazio. 
La smart city si pone come una nuova dimensione economica capace di generare nuova occupazione e una migliore qualità della vita.

Lavoro contratto e rappresentanza

Scegliere e decidere non sono la stessa cosa. Si può scegliere di affidare a un accordo scritto la possibilità di formare un governo, ma decidere quali investimenti fare, quali misure economiche sostenere, quali riforme della giustizia, della PA, della scuola è tutta un’altra questione. Il contratto è solo il punto di partenza. Non si crea una farfalla incollando due ali su un bruco. Serve collaborazione, confronto e senso di responsabilità per prendere le decisioni migliori. Lo sappiamo bene noi che, per prima funzione, sottoscriviamo i contratti collettivi di lavoro. La dinamica delle relazioni industriali è oggi più collaborativa che in passato. Questo ci permette di offrire risposte rapide ed efficaci, ma anche di assolvere a un compito nuovo della rappresentanza: mettere in connessione dialogica e funzionale la relazione tra impresa, società e famiglie.
Speriamo che il prossimo governo utilizzi il sistema di rappresentanza con più lungimiranza di quanto fatto dai suoi predecessori; che sia aperto all’ascolto e alla collaborazione con i corpi intermedi che sanno avanzare proposte, ben prima che si avvicini una scadenza elettorale. 
L’esempio del welfare parla da solo. In Italia è cresciuto il numero di imprese che hanno adottato piani di sanità integrativa e di assistenza socio-sanitaria per i dipendenti. Il welfare dei dirigenti, dalla previdenza complementare alla sanità integrativa fino alla formazione finanziata, rappresenta un’eccellenza che ha saputo fare da apripista per altre categorie di lavoratori. Per questo è importante che non sia posto un tetto a misure come la detassazione dei premi di produttività trasformati in welfare. Inoltre, i nostri Fondi Pensione stanno orientando parte dell’investimento verso l’economia reale, dimostrando di voler intraprendere, senza rischi per gli iscritti, una strada di interventi a vantaggio del sistema Paese. 
È quindi fondamentale che lo sviluppo del welfare contrattuale sia interpretato come supporto al welfare pubblico, in un’ottica di sinergia che dà respiro ai conti dello Stato mantenendo alto il livello delle prestazioni garantite. 

Con grande favore accogliamo l’ipotesi di separare l’assistenza dalla previdenza, un’operazione che richiediamo da tempo perché capace di assicurare maggiore trasparenza sui conti, di ristabilire equità e di favorire il ricorso dei cittadini alla previdenza complementare.
Se abbracciamo la tesi demografica che abbiamo seguito sin dall’inizio, dobbiamo condividere l’esigenza che gli strumenti di welfare siano razionalizzati, integrati e, in definitiva, supportati attraverso forme di incentivazione fiscale e normativa delegando alle Parti Sociali la responsabilità del cambio di modello
Stesso metodo va incoraggiato quando parliamo di agevolare l’innovazione in azienda. 
Federmanager ha attivato negli ultimi 3 anni un piano complesso per ampliare la gamma di servizi per i manager che si stanno confrontando con la sfida della Quarta rivoluzione industriale. Crediamo infatti che, come nella teoria economica della produttività marginale, l’innovazione di chi sta in alto porti benefici anche per gli altri lavoratori; maggiore sarà il nostro contributo nel processo di ammodernamento dell’industria, più ricchezza e più equità sarà generata a livello sociale. È la disuguaglianza, e non la ricchezza, il fattore che pregiudica il progresso di una Nazione. Pertanto dobbiamo immaginare un ruolo sempre più attivo della rappresentanza nel coordinare lo sviluppo, nel facilitare la creazione di network di innovazione, nel favorire l’incontro tra domanda e offerta di competenze. 
Prendiamo l’esempio di ciò che stiamo realizzando nelle nostre 57 sedi sul territorio: ogni Associazione di Federmanager sta attivando partnership con tutti gli attori del cambiamento, dalle imprese, alle organizzazioni territoriali di rappresentanza, alle università e centri di ricerca.
L’obiettivo, oltre ad immettere managerialità nel tessuto economico locale, è proprio quello di favorire l’innovazione attraverso strumenti operativi e azioni di sensibilizzazione e informazione. 
Dopo aver passato gli ultimi anni a ragionare di disintermediazione, di crisi delle relazioni sociali, di sovvertimento delle regole di comunicazione, chi stava in mezzo non sia affatto saltato per aria. Che oggi, più di ieri, ci sia un gran bisogno di mediatori. Che le cose che stanno a cuore alla gente siano le stesse, da sempre. Che su salute, equità, sicurezza e lavoro il nostro ruolo di rappresentanza sia più cruciale che mai.

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