La contrattazione collettiva

Ambiti, efficacia e derogabilità

Dopo gli incontri rivolti e mirati ai colleghi in servizio e alle RSA sulle implicazioni del Jobs Act nel rapporto di lavoro del dirigente (vedi focus su "Dirigenti Industria" febbraio 2016), ALDAI continua nella sua mission informativa e di approfondimento sulle tematiche importanti per la categoria.

Stefano Bartalotta

Avvocato e Professore a Contratto di Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali nell’Università degli Studi di Milano.

Il diritto del lavoro si è storicamente sviluppato su due pilastri: da un lato la legge, chiamata a porre le norme inderogabili di tutela dei lavoratori, dall’altra la contrattazione collettiva con cui le parti sociali realizzano l’equilibrio dei reciproci interessi.
La disciplina legale è statica e poco sensibile al mutamento del contesto sociale ed economico. La sua riforma richiede tempi lunghi e processi decisionali complessi, spesso ostacolati da veti ideologici o da resistenze di lobby e centri di potere poco inclini ai cambiamenti. Non è raro perciò che sia la giurisprudenza ad anticipare interventi legislativi riformatori, modificando l’interpretazione data alle norme ed adattandola ai mutati scenari. A conferma di ciò si valuti che per avere un intervento di riforma organica del diritto del lavoro ci sono voluti 45 anni, tale essendo il periodo trascorso tra lo Statuto del Lavoratori (1970) ed il Jobs Act (2015), e che nel frattempo la giurisprudenza aveva ampiamente modificato i propri orientamenti per esempio in tema di licenziamento.
Il contratto collettivo, che per sua natura è pensato per una durata temporale definita, è invece uno strumento dinamico, capace di intercettare e regolamentare bisogni nuovi quali le parti sociali reciprocamente fanno emergere e di modificare, aggiornandoli ed adattandoli alle situazioni concrete, istituti nati in contesti socio-economici affatto differenti.
Nell’ordinamento corporativo, quello cioè precedente alla caduta del regime fascista, i due pilastri erano previsti dall’ordinamento come obbligatori e tutti i rapporti di lavoro dovevano necessariamente avere una regolamentazione collettiva.
Nel sistema postcorporativo, introdotto in epoca repubblicana, il principio di libertà sindacale, affermato solennemente dall’art. 39 della Costituzione, ha comportato che la regolamentazione collettiva fosse legata alla scelta di lavoratori ed imprese, che dovevano liberamente poter decidere se associarsi o no alle organizzazioni stipulanti e disciplinare i loro rapporti avvalendosi del contratto collettivo.
La non obbligatorietà della contrattazione collettiva nell’ordinamento repubblicano non ha però diminuito il peso e l’importanza di tale pilastro, poiché lo stesso è stato essenziale per riempire i vuoti di tutela lasciati dalla legge.
Va ricordato a questo proposito per esempio che la tutela per i dirigenti contro i licenziamenti ingiustificati fu introdotta 46 anni orsono dal contratto collettivo per i dirigenti di aziende industriali del 20 luglio 1970 e che altrimenti questa categoria di lavoratori ne sarebbe stata completamente priva.
Va ricordato altresì che si deve alla contrattazione collettiva l’introduzione di strumenti di welfare come l’assicurazione sanitaria aggiuntiva al sistema sanitario nazionale o la previdenza integrativa, che sono istituti ormai dati per scontati nel rapporto di lavoro dirigenziale, ma che hanno avuto un riconoscimento legislativo solo molto tempo dopo che le parti sociali li avevano introdotti.
Lo stesso legislatore del resto ha progressivamente ampliato gli spazi di intervento della contrattazione collettiva, ritenendola più idonea ad interpretare le esigenze concrete ed attuali di lavoratori ed aziende, poiché espressione diretta degli organismi rappresentativi di tali attori sociali e delegandola spesso ad introdurre eccezioni alle disposizioni di legge o a definire aspetti applicativi di queste ultime. Si pensi, per esempio, al potere riconosciuto alla contrattazione collettiva di introdurre ipotesi aggiuntive a quelle previste dall’art. 13 Legge 300/70, in cui è possibile la modifica delle mansioni o al potere di ampliare o ridurre le percentuali dei contratti a termine stipulati in un’azienda.
L’importanza della contrattazione collettiva emerge poi in tutti casi in cui le organizzazioni sindacali divengono titolari di un diritto di informazione e di consultazione in quelle ipotesi di modifica delle organizzazioni aziendali capaci di incidere significativamente sui rapporti di lavoro, come nel caso dei trasferimenti d’azienda o dei licenziamenti collettivi. Riconoscendo questo diritto alle organizzazioni sindacali ed il corrispondente obbligo per le aziende, il legislatore intende favorire la produzione, mediante accordi collettivi, di regole condivise per la gestione di tali fenomeni, applicando il correttivo sociale imposto dall’art. 41 della Costituzione alla libertà d’impresa.
Riconoscere l’importanza sul piano sistematico della contrattazione collettiva non significa ovviamente rimpiangere i tempi ormai felicemente passati della cosiddetta “concertazione”, sistema che ha rappresentato una degenerazione del modello di relazione fra legge e contratto collettivo.
Un corretto modello di relazioni industriali è infatti quello che rispetta l’ambito della politica, chiamata a comporre gli interessi generali e non quelli di una categoria o di un settore, rivendicando alle parti sociali gli spazi di regolazione che la legge non può o non vuole occupare.
In questo quadro vedo con preoccupazione un diffuso atteggiamento di critica e di insofferenza verso il contratto collettivo ed una tentazione di affidare alla sola contrattazione individuale gli spazi di disponibilità lasciati dalla legge.
In realtà gran parte dei lavoratori, ivi compresi gran parte dei dirigenti, non ha la forza contrattuale per imporre condizioni e clausole di tutela adeguate, divenute ancora più importanti che in passato ora che il legislatore ha generalmente abbassato i livelli di tutela con una disciplina legale che lascia molti più spazi al potere organizzativo e decisionale delle aziende.
Vi è poi un fattore culturale legato al fatto che non tutti i lavoratori hanno adeguata conoscenza degli istituti e delle soluzioni disponibili per soddisfare in modo efficace i loro bisogni e dunque la mediazione competente ed intelligente delle organizzazioni sindacali è talvolta in grado di dare risposte che il singolo neppure immaginerebbe.
Per fare un paragone politico è la medesima considerazione che mi porta a preferire modelli di democrazia rappresentativa, in cui interessi e temi delicati vengano trattati da persone munite di adeguate competenze pur democraticamente scelte, rispetto al mito della democrazia diretta che a volte crea pasticci, come avvenuto nel recente caso Brexit.
Se poi la contrattazione collettiva dovrà svilupparsi come in passato su modelli nazionali o se sia preferibile privilegiare la contrattazione aziendale è questione da valutare in relazione alle situazioni delle diverse categorie e settori.
Per quanto riguarda i dirigenti, l’ambito nazionale mi pare irrinunciabile in considerazione del fatto che solo una minoranza di essi opera in aziende in cui è presente un numero di lavoratori appartenenti a tale categoria adeguato per consentire una gestione collettiva delle trattative. Dove però tale situazione esista ben vengano intese aziendali, integrative e persino sostitutive degli accordi nazionali come avvenuto per esempio nel caso dei dirigenti del Gruppo FCA ex FIAT.
Il principio di libertà sindacale di cui all’art. 39 della Costituzione sopra citato lascia comunque liberi lavoratori ed aziende di avvalersi o di non avvalersi del contratto collettivo, ma negarne o sottovalutarne l’importanza mi parrebbe un’opzione miope e socialmente pericolosa.
Archivio storico dei numeri di DIRIGENTI INDUSTRIA in pdf da scaricare, a partire da Gennaio 2013.

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