Alla base di tutto, la (s)fiducia

Credere o meno negli altri è una scelta che ognuno di noi fa ogni giorno, più volte al giorno. Spesso senza rendersi conto dei costi o dei benefici che ciascuna valutazione comporta. Anche in ambito lavorativo.

Alessandra Colonna

Managing Partner - Bridge Partners®
“Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”.  La saggezza popolare, qui riassunta in uno degli adagi più ripetuti di sempre, è netta sulla questione della fiducia: meglio centellinarla, ma se possiamo neghiamola pure.
E non ci sono eccezioni o legami familiari che reggano. Del resto, già la Genesi, nel Libro IV, racconta dell’omicidio di Abele per mano del fratello Caino. Ma sono innumerevoli, in letteratura così come nella vita reale, gli esempi di fiducia malriposta o tradita. In questo senso abbondano anche gli aforismi: Jean-Paul Sartre dichiarò che “la fiducia si guadagna goccia a goccia, ma si perde a litri”; Cechov diceva che puoi fidarti “del tuo cane fino all’ultimo, ma di tua moglie o di tuo marito solo fino alla prima occasione”; Ken Follet che “fidarsi di qualcuno è come tenere dell’acqua nelle mani chiuse a coppa: è facile perderla irrimediabilmente”. E questo per citare giusto qualche esempio.
Ciò detto, merita ricordare anche che la tendenza opposta, ovvero dare fiducia, è fortemente consigliata da molti: secondo François de La Rochefoucauld, “è più vergognoso non fidarsi dei propri amici che esserne ingannati” e del pari Victor Hugo ripeteva che “in ogni cosa, la fiducia che si sa ispirare costituisce la metà del successo. La fiducia che si avverte è l’altra metà”, mentre Hemingway diceva che “il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è di dargli fiducia”. 
Come è evidente, la questione del dare o meno fiducia, e nel caso in quale misura, è oggetto da sempre di profonde riflessioni, senza per questo produrre un giudizio che possa essere considerato definitivo.
Dovendo però attenerci ai fatti, indipendentemente da come ciascuno di noi risponda al quesito iniziale, è un dato di fatto che la mancanza di fiducia generi dei costi. Molto rappresentativa è la considerazione del saggista Stephen M.R. Covey nel suo libro "The speed of trust": dove c’è fiducia ci sono maggior velocità e efficienza, e i costi diminuiscono.
Facilmente desumibile è anche il suo contrario: dove manca la fiducia, per esempio nello scambio di informazioni, si registrano maggior lentezza, pesantezza e farraginosità. Che inevitabilmente fanno lievitare i costi.

Ecco un semplice grafico per riassumere la teoria.

Non ne siete convinti? Covey invita a un esercizio: pensate a una persona del vostro ambito lavorativo (un collega, un collaboratore, un cliente o un fornitore) di cui pensate di potervi fidare. Che tipo di sensazione vi suscita? Quali effetti ha sul vostro operato?
Viceversa, prendete una persona di cui non avete fiducia: quali sono i contraccolpi sul lavoro di entrambi? In che modo ne risente la comunicazione e la vostra relazione?
È innegabile: la mancanza di fiducia non solo si sente, ma ha delle ripercussioni. E pure pesanti.
Questo non vuole però essere un invito tout court a fidarsi.
La quotidianità ci insegna infatti che l’apertura e la generosità verso l’altro, intese in senso lato, spesso non pagano. Soprattutto all’interno del contesto lavorativo.
Probabilmente ciascuno di noi può facilmente citare casi in cui la nostra fiducia è stata mal ricompensata. Quante volte, per esempio, abbiamo dato una mano a un collega che se ne è poi bellamente dimenticato? Allo stesso modo, a molti di noi sarà capitato di aver confidato a un cliente il peso che ha sul nostro fatturato e che quest’ultimo ne abbia approfittato facendo valere la sua posizione.
Non è un caso che proprio la generosità e la riconoscenza siano alcune delle variabili più a rischio quando si decide di dare fiducia: ci espongono all’avidità di chi ci sta di fronte. Che magari sarà in grado di rendersi conto di quanto abbiamo fatto o, viceversa, potrà essere una persona poco orientata alla relazione e quindi approfittarsi del nostro gesto.
Ecco quindi che torniamo al punto di partenza: in quale misura dobbiamo fidarci degli altri?
Illuminante, a tal proposito, è sicuramente la Teoria dei Giochi, che è stata formulata nel 1944 (ma ancora perfettamente valida) da John von Neumann e Oskar Morgenstern, e che ha come oggetto proprio il tema della fiducia, dei conflitti e della cooperazione tra entità razionali in un quadro di asimmetria informativa. Secondo questa teoria, non conoscendo con certezza le scelte che faranno gli altri “giocatori”, le persone ottimizzerebbero il risultato delle proprie scelte se si lasciassero guidare dai rispettivi interessi in un clima di assoluta razionalità e fiducia reciproca. I fatti testimoniano però che gli uomini non agiscono razionalmente e non hanno fiducia reciproca, pertanto gli accordi sottoscritti (per esempio quelli economici) non sempre sono i più efficienti possibili.
Il dilemma del prigioniero spiega bene l’applicazione della teoria rispetto alle scelte efficienti in assenza di informazioni complete. Due prigionieri accusati di spaccio sono messi in celle diverse dal giudice, che è convinto siano rei anche di furto di armi. Il giudice offre a entrambi questa opportunità. “Se confessi prendi un anno, ma se neghi e l’altro confessa tu prendi dieci anni e lui uno, se tutti e due confessate prendete tre anni, se entrambi negate non verrete imputati per furto”. Un comportamento razionale suggerirebbe che entrambi neghino ma l’esperienza empirica dimostra che non lo faranno: non fidandosi l’uno dell’altro entrambi confessano, scelta non ottimale ma di fatto razionale, perché fondata sul rischio minore in assenza di informazioni precise sulle scelte dell’altro.
Un serio problema questo, con pesanti costi per tutte le parti coinvolte. Come uscirne allora?
Un forte aiuto lo fornisce sicuramente la tecnica della negoziazione. 
Alla base c’è la convinzione che la fiducia dovrebbe sempre concessa con prudenza. Ciò permette infatti, se non di eliminare, quantomeno di ridurre molto il rischio di non vedere ripagati i gesti di generosità che facciamo. Come si traduce tutto ciò? Incredibilmente, in una regola molto semplice e cioè: “Se tu... allora io”: a fronte di X da parte tua, sarò ben lieto di darti Y . Ovvero: il mio non è né un no né un sì a priori. Il primo caso presupporrebbe infatti un atteggiamento puramente impositivo e non certo espressione di particolari capacità; il secondo potrebbe generare invece maggior avidità e non comprensione del valore che si sta ricevendo, alimentando così nuove richieste. La soluzione del “Se tu...allora io” ammette invece la possibilità che ti darò, ma alle mie condizioni, ciò che mi chiedi. Fiducia compresa.

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