Chi ha incastrato il merito?

C’è ancora molto lavoro da fare in tema di uguaglianza uomo-donna, ma l’attenzione va posta anche su un punto altrettanto importante: il Paese non riesce a dare il giusto peso alla meritocrazia

Il disarmante spettacolo riguardante l’elezione del Presidente della Repubblica non solo ha mostrato la drammatica crisi della politica. Ha anche testimoniato l’arretratezza culturale in tema di equità di genere in cui annaspa il Paese.

L’inqualificabile pratica “usa e getta” di nomi femminili e la formulazione di espressioni quali “una donna, sì, ma in gamba” hanno tradito tutti i bias che condizionano il pensiero della nostra classe politica, specchio – si dice – dei cittadini. Se la situazione è questa, allora è lecito domandarsi come l’attuazione del Pnrr potrà mai rispondere a quelle aspettative di riequilibrio di genere, di accesso alle opportunità per i giovani e di equità territoriale richieste dal Next generation Eu.

Eppure, non è questo il momento di demordere, piuttosto di capitalizzare l’impegno istituzionale e legislativo realizzato sin qui per raggiungere quel consenso indispensabile a un vero cambiamento sociale.
 
Non dimentichiamo che la pandemia – se da una parte, ha peggiorato la condizione femminile, evidenziandone le criticità strutturali – dall’altra, ha generato un fermento inusuale sui tavoli nazionali, europei e sovranazionali
 
Il 2021 è stato costellato da una serie di iniziative – la strategia quinquennale per la parità di genere e lo sviluppo sostenibile della Commissione europea, la direttiva per la parità e la trasparenza di retribuzione tra uomini e donne, il G7 summit, la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, il B20: raccomandazioni per l’empowerment femminile per il G20 e il G20 Empower, la legge italiana sulla parità salariale, la Cop26 a Glasgow – che, osservate nel loro insieme, lasciano trapelare una visione integrata del futuro, piuttosto inedita.

Una visione, peraltro, dettata da una lucida analisi socio-economica da cui emerge con forza la necessità di assicurare una ripresa post-pandemica in chiave sostenibile, trainata da quell’economia della conoscenza, che si nutre innanzitutto di innovazione, competenze e tecnologia.

Ed è proprio in questa direzione che inizia a palesarsi una interessante convergenza da cavalcare. La ridefinizione dei sistemi produttivi, energetici, urbani e logistici spingerà sempre più le strategie aziendali verso un approccio “Sustainable by design” che può trovare nel “Diversity & inclusion by design” la migliore combinazione possibile, per beneficiare di tutto il talento disponibile dentro e fuori le organizzazioni.

Due punti giocano a favore delle donne. La distintività della leadership femminile che, sia in politica sia in finanza, si è battuta per policy più generative che predatorie, attente alle questioni di ordine sociale e ambientale, e la competenza in tema di sostenibilità su cui le donne si stanno già posizionando a livello manageriale. Si tratta “solo” di creare il mindset e il contesto giusto perché l’altra metà della popolazione possa esprimersi portando il suo ricco contributo a una sana evoluzione del sistema capitalistico.

Una delle misure contenute nel Pnrr, che più potrebbe contribuire a creare le condizioni favorevoli, è il sistema di certificazione per la parità di genere, ossia una prassi di riferimento Uni, che definisce i requisiti e gli indicatori di prestazione sugli aspetti che impattano la gender equality nelle aziende. La previsione di collegarla a una premialità per accedere a bandi pubblici e incentivi potrebbe imprimere un’accelerazione importante alla costruzione di una pipeline femminile e ad incrementare il numero – attualmente esiguo – di donne Ceo. Sappiamo, infatti, che sono loro a incidere sul gender gap nelle organizzazioni più di quanto riescano a fare i Cda delle aziende quotate, sottoposte alla legge Golfo-Mosca.

Ma, una volta poste le basi per un’uguaglianza di genere a livello occupazionale, manageriale, apicale e di retribuzione, rimane ancora un tema: quello del merito.

Perché in Italia, ancor prima del genere, c’è un gap di meritocrazia che offusca l’intero mercato del lavoro, pubblico e privato, mortifica i giovani, depotenzia il Paese. È un problema strategico, è un tema politico, di primaria importanza. Se non avremo il coraggio di affrontarlo come tale, sarà impossibile rispondere alle complesse sfide di rinnovamento che richiedono competenze giuste nei posti giusti, trasparenza, senso di responsabilità e riconoscimento dei meriti individuali.
 
In Italia c’è un gap di meritocrazia che offusca l’intero mercato del lavoro, pubblico e privato, mortifica i giovani, depotenzia il Paese. È un problema strategico, è un tema politico, di primaria importanza
 
Per comprendere il contesto disfunzionale in cui ci muoviamo, vale la pena ricordare il caso eclatante, di recente tornato alle cronache, del Colonnello Maurizio Bortoletti. Ufficiale dei Carabinieri, avvocato specializzato in gestione d’impresa e analisi di comportamenti illegali, nel 2012 è stato l’artefice di un risanamento della Asl di Salerno, definito straordinario. Intervenuto alla V edizione della Giornata nazionale del merito lo scorso 29 novembre, ha spiegato il segreto del “miracolo” con un’inaudita semplicità: le persone. Quelle che ha trovato in servizio – le stesse della gestione precedente – che ha saputo motivare, ascoltare, ingaggiare, premiare nella più completa trasparenza. Ebbene, il 18 novembre 2021 il Consiglio dei ministri lo ha nominato Sub commissario al disavanzo della sanità pubblica della Regione Calabria, commissariata da 11 anni. Da allora, inspiegabilmente, il decreto di nomina non è mai arrivato. Forse il merito fa paura a chi sguazza nell’opacità?

La domanda giusta da porsi è: qual è il costo di una società non meritocratica a livello individuale e collettivo? Marco Santambrogio, filosofo del linguaggio e saggista, autore del recente libro “Il complotto contro il merito” (Editore Laterza, ottobre 2021), avverte che il merito e il riconoscimento del merito hanno una tale importanza nella nostra vita che produrre un sistema che lo disconosce, sino a privarci della motivazione di impegnarci e di nutrire fiducia nel futuro, non può che generare società deprimenti in cui prevalgono frustrazione e indignazione.

Ma c’è di più. Chi studia le dinamiche del mercato del lavoro sa che è in atto un grande cambiamento. Ricerche internazionali, come “The Working future: more human, not less” di Bain & Company, mostrano quanto la disruption innescata dalla pandemia stia modificando irrevocabilmente la domanda e l’offerta. Da una parte, le persone hanno rifocalizzato le loro priorità e utilizzato la tecnologia per rimodulare il trade off lavoro-benessere e, dall’altro, le società si sono rese conto di quanto il talento stia diventando la loro risorsa più preziosa e dovranno trasformarsi da talent takers a talent makers.

In sostanza, il potere si sta spostando dal capitale al lavoro e non ci sarà futuro per le economie incapaci di valorizzare il capitale umano. I prossimi dieci anni saranno decisivi per la riformulazione del mondo del lavoro e per le donne, che potranno giocare tutte le loro carte e far pesare i loro meriti. Raccogliendo, tra l’altro, la sfida lanciata dalle modifiche alla Costituzione, che hanno aggiunto all’utilità sociale due nuovi parametri a delimitare e orientare l’iniziativa economica: la salute e l’ambiente.

Articolo pubblicato da Progetto Manager

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