Fare startup in Italia, testimonianza di un socio ALDAI

Il Ministero dello Sviluppo Economico ha pubblicato i dati relativi all’andamento delle startup innovative, in Italia, nell’ultimo trimestre 2015. Alla fine dello scorso anno, le startup innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese erano 5.143, vale a dire 9,3% in più rispetto alla fine di settembre. Secondo il rapporto di Infocamere, le startup rappresentano lo 0,33% del milione e mezzo di società di capitali italiane. Il loro capitale sociale è pari complessivamente a poco più di 258 milioni di euro, che corrisponde in media a quasi 50 mila euro a impresa (il capitale medio è rimasto stabile rispetto al trimestre precedente).

Chiara Tiraboschi

Giornalista - Responsabile Servizio Comunicazione e Marketing ALDAI

Chi di startup se ne intende, al di là dei numeri, è Gabriele Del Sorbo, dirigente socio ALDAI, fondatore di una startup italiana che ha visto ampio consenso e interesse internazionale, al punto da aver stipulato anche un contratto con Fujitsu, ma che, a seguito di molte criticità incontrate sul fronte bancario e burocratico, si è vista mancare l’opportunità di 
rivoluzionare, nel senso più ampio del termine, il mondo del retail.
Ma andiamo con ordine. Nato in Eni, con un passaggio in Magneti Marelli e uno in Ferretti, Gabriele del Sorbo sembra da subito persona amante delle sfide e delle opportunità. Per questo nel 2008 quando si è dimesso da una multinazionale delle telecomunicazioni, non ha avuto timore a prendersi otto mesi per girare il mondo. Ed è in questa occasione che nota come ovunque, ma proprio ovunque, le etichette dei prodotti, dai supermercati ai negozi di medie dimensioni, siano tutte uguali a se stesse, poco comunicative e “interattive”. Da qui l’idea di trasformare la comune etichetta in interfacce di comunicazione istantanea tra azienda e consumatore finale.
Un’innovazione che porta all’idea di Del Sorbo quasi 5 milioni di euro in investimenti.

Dott. Del Sorbo, lei nasce dirigente industriale, poi d’un tratto fonda una startup. Due mondi agli antipodi ma anche simili per certi punti di vista.
“Vero. L’azienda è un fortissimo filtro verso chi incontri e chi conosci, quando diventi imprenditore invece non hai un pre-screening o un biglietto da visita altrettanto forte. Cominci a ragionare con
un mondo totalmente diverso: ci si scontra con la realtà durissima del mondo imprenditoriale, nel mio caso poi, non va dimenticato che il 2008 è l’anno in cui è scoppiata la crisi economica. La verità
è che imprenditori non ci si improvvisa”.

Come ha iniziato?
“Focalizzandomi sull’idea e sui suoi punti forti. In azienda ragioni in termini di milioni, quando sei imprenditore ragioni sui mille euro. Anche questo passaggio di mentalità non è stato semplice da gestire:
gestisci molti meno soldi che però sono i tuoi. Vivi un cambio di mentalità enorme, soprattutto di prospettive. I miei punti di forza erano le relazioni coltivate in molti anni di lavoro in azienda,
l’ampia comprensione del settore e più in generale il mio know-how”.

Lei è riuscito a crearsi un team con 14 dipendenti, diversi consulenti, 4,5 milioni di euro arrivati a sovvenzione da Fondi e Investitori privati. Producevate anche l’hardware. Una startup che guarda all’industria.
“Quando fondi una startup tecnologica l’idea di tutti è sostanzialmente quella che tu stia facendo una app, noi al contrario ci siamo messi a fare industria nel senso più vero del termine: producevamo
l’hardware, non solo le applicazioni. Grazie ad una struttura di comunicazione, abbiamo messo in piedi un sistema di produzione di decine di migliaia di pezzi.
Davanti una startup, dietro un’azienda: realtà alquanto atipica in Italia. La più grande difficoltà è stata creare industria da zero e crearla velocemente, ma nel mondo delle tecnologie devi essere necessariamente molto rapido, in quanto la raccolta di denaro deve essere compatibile con la crescita che hai in testa”.

Perché non ha funzionato secondo lei?
“Il mercato dei capitali in Italia è estremamente immaturo, anche oggi. Mentre negli USA ti danno i soldi di cui hai bisogno per la tua crescita esponenziale, in Italia i capitali sono solo quelli che riesci a trovare e che, quasi mai, sono sufficienti...
C’è da aggiungere che nessuno compra da una startup, le realtà più solide non si affidano ad una nuova società quando in ballo ci sono punti critici. Fujitsu ci ha dato empowerment sul mercato e grazie a questo accordo, la macchina commerciale ha cominciato a funzionare, abbiamo così installato diversi punti vendita in Italia e Francia.
Tutto questo condito da una grossa difficoltà di reperire capitali. Quando hai un’industria devi finanziare il circolante: produci decine di migliaia di pezzi, il produttore vuole essere pagato in anticipo mentre il cliente finale ti paga dopo, rimane quindi un gap di 6 mesi da coprire. Maggiore è il successo, maggiore il gap e noi abbiamo avuto un successo tale da richiedere milioni di circolante”.

L’Italia dunque non è pronta a queste realtà?
“Nel nostro Paese c’è ancora molto da fare, anche a causa di un sistema bancario che impone molti vincoli. La mancanza di maturità negli investitori tradizionali si riflette in una bassa raccolta di
capitali e di conseguenza in un’impossibilità a crescere e svilupparsi. Dovessi ricominciare da zero, prima raccoglierei tutti i soldi necessari. Come si dice in Inghilterra: “Cash is King”.

Attualmente Gabriele Del Sorbo è impegnato a sviluppare una nuova idea imprenditoriale, e questo rappresenta sicuramente per lui una nuova sfida e una nuova opportunità.

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