Io negozio. Quindi vinco. Anzi, vinciamo tutti!

Nel nostro Paese la negoziazione è ancora confusa con il compromesso o con la concessione, che però presuppongono rinuncia e insoddisfazione. In realtà è possibile generare valore per tutti i soggetti coinvolti.

Alessandra Colonna     

Bridge Partners®

Alzi la mano chi può dire di sapere con precisione cosa sia la negoziazione! I più, immaginiamo, stanno esitando; i più temerari magari azzardano anche qualche plausibile definizione: “trattativa”, “compromesso”, “concessione”… Ammettetelo, ci avete pensato anche voi, o no?
Sappiate allora che a chi ci chiede cosa sia davvero la negoziazione, noi rispondiamo sempre partendo da cosa non è la negoziazione. Nella fattispecie, trattativa, compromesso o concessione.
Confusi? Non vi preoccupate, siete in buona compagnia; del resto, la stessa parola “negoziazione” è pochissimo usata e, quando succede, spesso viene abusata, anche a livello mediatico. Non stupisce quindi che la negoziazione sia un’attività poco se non addirittura per nulla conosciuta in Italia. E questo nonostante possa rivelarsi un’arma estremamente utile. Anche all’interno dell’ambito lavorativo.
Esistono infatti molte modalità per condurre una trattativa ed è incredibile constatare quanto diversi possano essere gli effetti, in termini sia di costi sia di benefici per tutti i soggetti coinvolti. 
Per semplificare, ricorriamo a un esempio che ha fatto scuola e che è stato teorizzato da Roger Fisher e William L. Ury in Getting to Yes: due sorelle che si contendono l’unica arancia disponibile giungono al compromesso di dividerla a metà in modo tale che entrambe ottengano il massimo possibile. O almeno così pensano. In realtà, poco dopo, una delle due pela la buccia così da farne dei canditi e butta la polpa che non le serve; l’altra, invece, prepara una spremuta con la polpa e butta la buccia. Risultato? Entrambe avrebbero potuto ottenere il 100% di quella che per ciascuna di loro rappresentava la massima soddisfazione possibile ma nella pratica si sono fermate al 50%. 
Solo un caso? Non proprio. L’esempio delle due sorelle ben rappresenta infatti la tendenza delle persone ad avere un atteggiamento di disconoscimento e di rifiuto verso le istanze degli altri: ciò corrisponde a due o più rinunce (a seconda del numero di soggetti coinvolti), alla suddivisione delle risorse in maniera inefficace e, in ultima analisi, alla perdita di importanti opportunità. 
Nel caso specifico, l’oggetto del contendere era una semplice arancia ma cosa succede quando ci troviamo davanti a una posta in gioco ben più consistente? Quali sono i costi quando una trattativa che stiamo conducendo prende una direzione diversa da quella che noi (o peggio, il nostro superiore!) ci saremmo aspettati? 
Pensiamo per esempio a quel contratto con un potenziale cliente che potrebbe far fare la “svolta” alla nostra azienda; o piuttosto, a quel fornitore che non vuole sentirne di abbassare il prezzo, per noi purtroppo inaccessibile: eppure al suo servizio non vogliamo rinunciare, ci farebbe proprio comodo!
Ecco quindi che la “modalità” con cui decidiamo di procedere diventa fondamentale. E qui torniamo all’inizio del nostro ragionamento, ovvero alle diverse prassi, che però – vogliamo ribadirlo con forza – nulla hanno a che vedere con la negoziazione. Se ad esempio optiamo per la persuasione, corriamo il rischio che dall’altra parte manchi la disponibilità a cambiare opinione: nel qual caso, avremo ottenuto ciò che vogliamo ma probabilmente resteremo gli unici a rimanere soddisfatti e prima o poi, possiamo scommetterci, la cosa ci si ritorcerà contro.
A un risultato simile si può arrivare con l’imposizione: nel breve periodo “vinciamo”, ma quale prezzo saremo costretti a pagare in futuro, soprattutto in termini di relazioni e reputazione? 
L’alternativa è accettare un compromesso: avremo la sensazione (o l’illusione?!) di aver vinto tutti, in realtà nella migliore delle ipotesi ciascuno di noi avrà ottenuto al massimo la metà di ciò che desiderava. 
Modalità forse ancora più improduttiva è poi quella della concessione: oggi noi rinunciamo a qualcosa ma non siamo per nulla certi che domani la nostra privazione verrà ricompensata in modo equo. Anzi…
Qualcuno, stremato, a questo punto potrebbe avanzare l’ipotesi del tirare a sorte: ma voi ve la sentireste di affidare al caso l’esito di una trattativa importante, se non addirittura vitale, per la vostra carriera o per il bilancio della vostra azienda? Noi sinceramente no…
Da qui la necessità di competenze oggettive, di abilità, in una parola di un metodo che ci permetta di condurre al meglio una trattativa. Quel metodo è appunto la negoziazione. 
A questo punto possiamo finalmente svelare le carte e spiegare in cosa consiste. Negoziare è una modalità di trattativa che si fonda sullo scambio, reso possibile da una reale conoscenza dei bisogni propri e degli altri; a differenza di altre forme di relazione, però, non presenta costi ma solo benefici. La peculiarità della negoziazione, infatti, è quella di generare nuovo valore e non piuttosto ripartire quello che già c’è fra i soggetti in causa. Come? Fondamentale in questo senso è riuscire a dare all’altro ciò che per lui è importante ma per noi no, e viceversa. Nel caso estremizzato delle due sorelle, ciò si tradurrebbe col fatto che una delle due prende solo la buccia, l’altra solo la polpa, convinte entrambe di aver capitalizzato così il miglior risultato possibile.
Si tratta ovviamente di un approccio che presuppone non solo un cambio di prospettiva ma anche l’acquisizione di un vero e proprio metodo. E in questo siamo categorici: negoziatori non si nasce, lo si diventa, con regole e processi tutt’altro che intuitivi o innati. Chi pensa di essere un “negoziatore nato” fa infatti il paio con chi il lunedì mattina discetta di tecnica calcistica. Facile commentare dall’alto del bancone di un bar. Peccato solo che è quando si scende davvero in campo che si capisce chi è un buon allenatore. O, mutatis mutandis, un buon negoziatore…

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