Dirigenti italiani all’estero
Intervistiamo un collega da sei anni all’estero, per condividere: le motivazioni della scelta, i benefici e le implicazioni personali e familiari, ma anche per trarre spunti di riflessione e aprirci al mondo che cambia.
A cura della redazioneCon un mercato del lavoro italiano incerto un crescente numero di manager coglie le opportunità di sviluppo della carriera internazionale. In alcuni casi il trasferimento all’estero è determinato da incarichi “international” nell’ambito della multinazionale per la quale già si lavora, in altri è stabilito nella proposta di assunzione, per ricoprire ruoli specifici all’estero. La scelta ha un evidente impatto sul percorso professionale e sulla famiglia. Un salto che richiede riflessione e può essere utile conoscere cosa ne pensa chi ha avuto il coraggio di trasferirsi all’estero. Ne parliamo quindi con il collega Paolo Fabbricatore 46enne Direttore Generale CINA del gruppo industriale piemontese FNA, da oltre tre anni a Shanghai con moglie e due figli liceali.
Ing. Fabbricatore, quanti anni ha lavorato in Italia e cosa ha motivato il trasferimento in Cina?
Ho lavorato circa 13 anni in Italia in locations diverse. In realtà la mia prima esperienza all’estero non è stata quella cinese; ho avuto infatti l’opportunità di vivere una bellissima esperienza in Turchia per lo start-up di un nuovo stabilimento di lavatrici per la Indesit poi acquisita da Whirlpool. Il successivo trasferimento diretto dalla Turchia alla Cina, è stato la conseguenza logica di una scelta fatta al momento del primo espatrio con la famiglia. Curiosità e voglia di misurarmi personalmente e professionalmente con culture e modi di lavorare in Paesi molto diversi dal nostro.
Quali sono stati i principali ostacoli per lei e la famiglia nel trasferirvi all’estero?
A parte il problema legato alla ricerca di una buona scuola internazionale per i miei figli, non ho percepito alcun ostacolo. È importante una grande coesione familiare e la condivisione della scelta. Un’esperienza all’estero, soprattutto in Paesi come la Cina è sicuramente impattante, serve una forte capacità di adattamento e una organizzazione delle attività prima del trasferimento. Il bilancio è complessivamente positivo per tutta la famiglia.
Quale ruolo svolge in Cina?
Sono arrivato in Cina con la responsabilità delle operations di una società italiana che ha due fabbriche e oltre 1.000 persone. Successivamente sono stato nominato Direttore Generale in Cina e da poco sono entrato nel Board. Gestisco il conto economico dell’azienda per un giro d’affari di circa 150 Milioni di dollari. Riportano a me tutte le funzioni aziendali e rispondo direttamente all’headquarter in Italia.
Perché i manager italiani sono apprezzati all’estero?
Credo per la nostra competenza, flessibilità e la spiccata capacità di problem solving, ma anche per l’approccio umano che ci riconoscono. Parto dall’assunto che le nostre università seppur spesso non molto vicine al mondo del lavoro, contribuiscono allo sviluppo di una forma mentis fortemente indirizzata al ragionamento e alla risoluzione dei problemi, abilità che si sviluppa anche per districarsi nelle complessità del nostro Paese. La nostra cultura, la nostra capacità di adattamento e di essere flessibili rispetto alle condizioni al contorno ci rendono appetibili sul mercato.
Cosa le piace di più nel lavoro?
La quotidianità delle sfide che devo affrontare. Queste non sono solo di business, ma soprattutto di natura culturale. È uno scambio continuo di informazioni tra me e il mio team cinese che arricchisce entrambi. Chiaramente le difficoltà sono parecchie, ma la soddisfazione del raggiungimento di un risultato, ottenuto con sforzi doppi rispetto a quelli che ci sarebbero voluti in Italia, ti ripaga della tensione e dello stress che si accumula ogni giorno.
Quali sono le caratteristiche del leader internazionale?
È difficile rispondere a questa domanda: ne indico alcune essenziali dimenticandone sicuramente altre. Un leader moderno internazionale deve essere curioso, di mentalità aperta verso qualunque cosa non faccia parte della propria cultura, predittivo, con competenze trasversali, capace di prendere decisioni, veloce e multitasking, ma soprattutto con una forte personalità e orientamento al risultato. Spesso queste ultime due caratteristiche chiave vengono a mancare e sono difficili da cogliere durante un processo di selezione, ma sono essenziali per sopravvivere prima e avere successo poi.
Tornerebbe a lavorare in Italia e a quali condizioni?
Certamente si, ma in un’azienda che valorizzi le mie esperienze, che sia aperta al mondo e che abbia un piano di sviluppo a lungo termine. Non vorrei perdere quell’internazionalità del mio profilo e non vorrei che la perdessero i miei figli. Penso che possano avere un futuro migliore con una cultura internazionale. Il nostro resta il Bel Paese, ma abbiamo bisogno di guardare oltre e quando mi confronto con amici e parenti italiani capisco che siamo ancora troppo italiani.
Quali sono i temi prioritari che l’Italia dovrebbe affrontare?
Senza dubbio scuola e università. Non sono in contraddizione con quanto commentato in precedenza. In questi anni ho avuto la fortuna di seguire i miei figli e di partecipare ad eventi con università straniere. Le differenze con il modello italiano sono enormi. Talvolta il nostro studio è mnemonico e noioso e non sviluppa quelle capacità che servono nel mondo dell’impresa e all’estero. Siamo molto autoreferenziali. Continuo a percepire scarsi investimenti nell’informatica e nelle lingue straniere. Ancora oggi, dopo qualche passo avanti, arrivano curricula di laureati che a malapena parlano inglese. Mi trovo di fronte persone che parlano 4/5 lingue con alcune che potrebbero fare veramente la differenza nella scelta del candidato (il cinese, il russo, l’arabo). La nostra proposta scolastica non è innovativa e nemmeno al passo con i tempi. Avremo difficoltà ad attrarre talenti se solo poche Università, come la Bocconi e il Politecnico, hanno a disposizione un corso di laurea in lingua inglese.
Dobbiamo conservare i nostri valori, ma internazionalizzare le scuole e le nostre università favorendo lo scambio culturale. La sfida è su scala globale e la possibilità di collocarsi professionalmente nella propria città o nel proprio Paese rappresenta un limite.
Pensa che i problemi dell’Italia siano solo di natura scolastica?
No certo, anche se la preparazione influisce sulla cultura del Paese con implicazioni che finiscono per condizionare lo sviluppo economico e sociale. Vivendo all’estero sono evidenti gli eccessi di “provincialismo”, la scarsa valorizzazione del merito, la dubbia certezza del diritto, il prevalere dei sofismi ai fondamentali del pragmatismo internazionale, l’eccesso di individualismo relega in secondo piano le logiche sistemiche e l’importanza delle politiche di sviluppo per generare maggiori risorse reali per il benessere collettivo. Il sistema burocratico ottocentesco e l’incertezza del diritto costituiscono i maggiori handicap. L’Italia è percepita come uno fra i Paesi più belli nei quali vivere, ma non per fare business. La globalizzazione non è solo un fenomeno economico, Il villaggio globale offre opportunità di crescita culturale che l’Italia fatica a capire, cercando di imporre ad altri la propria visione piuttosto che arricchire le propria cultura con le buone pratiche altrui. Ci sono più punti in comune fra le culture cinesi, inglesi, tedesche e americane di quanti ce ne siano con quella italiana.
Quale contributo pensa di aver dato all’impresa e quali risultati pensa di aver conseguito negli ultimi due anni?
Ho contribuito attraverso un grande cambiamento organizzativo, a far conoscere e condividere principi e valori dell’azienda. Sono stato l’attore principale e il driver di un cambiamento del footprint industriale attraverso l’inserimento di moderni manager cinesi e stranieri che hanno contribuito insieme a me al raggiungimento di ottimi risultati economici e finanziari del gruppo degli ultimi anni … e la sfida continua!
Rispetto alle competenza funzionali richieste nel passato, quanto sono aumentate le aspettative delle imprese in termini di responsabilità, visione, organizzazione e competenze trasversali?
Quando ho tracciato le caratteristiche del moderno leader internazionale ho parlato anche di competenze trasversali. In posizioni apicali, ma non solo, le imprese cercano profili con competenze molto ampie. Pensiamo a come sono cambiati gli HR manager e Finance manager negli ultimi anni. Non sono più gestori di risorse o di numeri, ma profili con grande visione e con competenze di business inimmaginabili qualche anno fa. L’internazionalizzazione dei progetti , i modelli organizzativi sempre più complessi operanti a livello globale necessitano di persone che sappiano muoversi in ambiti diversi e che sappiano destreggiarsi in aree di competenza non specifica.
Quali responsabilità del dirigente ritiene prioritarie: il raggiungimento degli obiettivi, l’etica nella gestione delle persone, oppure la responsabilità civile e penale insita nel ruolo?
Sicuramente il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Assolutamente anche l’etica soprattutto quando si opera all’estero con piena responsabilità in nome e per conto dell’impresa/imprenditore.
Cosa consiglierebbe ad un collega italiano che vuole fare carriera internazionale?
Di preparare subito la valigia e metterci dentro energia, ottimismo, passione per le sfide e di cominciare quanto prima!
01 gennaio 2019