Il valore aggiunto e le aspettative delle donne manager

Secondo il McKinsey Global Institute, se le donne avessero pari accesso degli uomini nel lavoro e nella società, il Pil globale potrebbe aumentare del 26% e quello italiano del 15%.

Elisabetta Borrini

Vice coordinatrice nazionale Minerva

Siamo a pochi passi dalla Basilica di San Pietro in Vaticano, l’auditorium è una grande sala congressi dell’Istituto Patristico Augustinianum ed è dedicato a Padre Agostino Trapè, noto per la diffusione delle opere e del pensiero di Sant’Agostino. 
La platea è gremita: almeno 300 persone, moltissime donne ovviamente, ma anche un nutrito gruppo di colleghi uomini. Questi i partecipanti all'evento “L’altra dimensione del management: il valore aggiunto delle donne tra impresa, famiglia e società”, che ha visto la partecipazione di ospiti internazionali dalle istituzioni, dalla Chiesa e dalle aziende.
Il patrocinio offerto all’evento dal Dicastero per i Laici la Famiglia e la Vita è un segnale dell’importanza dei temi trattati e l’intento comune di Federmanager e Santa Sede di cambiare la cultura dominante.
Al centro dell’evento, la ricerca svolta da G&G Associated su iniziativa di Federmanager che vuole stimolare la discussione sulle proposte concrete utili a sviluppare una nuova idea di lavoro etico e sostenibile, un migliore bilanciamento tra vita professionale e famiglia ed il superamento dei gap tra uomo e donna.
La parità formale tra uomo e donna sul lavoro, raggiunta faticosamente negli anni, non si è tradotta in parità sostanziale: la donna, anche nei Paesi più sviluppati, risulta ancora fortemente svantaggiata nell’accesso al mondo del lavoro ed a retribuzioni eque. 
L’Italia, in particolare, è collocata ancora tristemente nella seconda metà della classifica mondiale sulla parità di genere, elaborata dal World Economic Forum nel 2017. Ciò avviene nonostante gli interventi legislativi degli ultimi anni, come la Legge Golfo-Mosca del 2012, che comunque ha permesso un aumento significativo del numero di donne all’interno dei CdA delle grandi aziende italiane.
Eppure, secondo il McKinsey Global Institute, se nel mondo le donne avessero pari accesso degli uomini nel lavoro e nella società, il Pil globale potrebbe aumentare del 26%, quello italiano del 15%, ma soprattutto – aggiungono i relatori del convegno – si otterrebbe una società più civile, una economia più solida ed uno sviluppo più sostenibile.

Un problema culturale?

La ricerca ha messo in evidenza come in Italia la sensazione diffusa riguardo alla discriminazione tra uomini e donne sul lavoro è che sia dovuta ad un problema soprattutto culturale, anziché sociale o economico.
In realtà, un manager under 50 su due non riesce a conciliare lavoro e famiglia, soprattutto per mancanza di tempo. Un dato interessante è quello che negli USA ed in Germania si dedicano complessivamente meno ore al lavoro rispetto all'Italia: nel nostro Paese è ancora presente lo stereotipo per cui il dipendente viene valutato per le ore di presenza al lavoro più che per i risultati, mentre la flessibilità dell’orario di lavoro è al primo posto tra le aspettative dei nostri colleghi.
Uno dei grafici presentati, dal titolo: “Cosa rappresenta per Lei il lavoro?” ha riservato alcune significative sorprese: è emerso che tra le donne italiane il lavoro è visto principalmente come una forma di realizzazione personale, al di fuori dei limiti imposti dalla società e dalla famiglia. Questa visione diverge dalle aspirazioni delle colleghe negli USA ed in Germania, ove sono considerati anche “il desiderio di competizione”“la scala per il successo” ed “il fare qualcosa di utile per il prossimo”.

La natalità e la cura in famiglia

L’Italia è da anni ai livelli più bassi per il numero di figli per donna (1,34), ben al di sotto della quota fisiologica di sostituzione di 2,1, ma nonostante questo, tra il 2011 ed il 2016 hanno abbandonato il posto di lavoro 115.00 neomamme e si registra il più basso tasso di partecipazione delle donne al lavoro. 
Non è un caso che Paesi come l’Islanda e la Francia, dove sono più perseguite le politiche di supporto al lavoro delle donne e di work-life balance, abbiano la natalità tra le più alte in Europa.
Almeno il 75% del lavoro non retribuito nel mondo è svolto dalle donne; al netto di attitudini personali che vanno sempre rispettate e di inevitabili retaggi storici, mancano strumenti e strategie di gestione che sappiano valorizzare il patrimonio di competenze acquisite nella cura delle persone in famiglia. 

Il diversity management e gli skills femminili

Ancora troppo lenta nelle aziende risulta la diffusione di forme di governance che sappiano valorizzare l’apporto dei collaboratori a prescindere da sesso, etnia o appartenenza. Eppure i dati dimostrano, ad esempio, che le società con una forte leadership femminile hanno beneficiato in questi anni di performances superiori alle altre: negli USA la differenza è stata di ben cinque punti percentuali.
Quello che pare certo è che i talenti, in particolare femminili, sono attratti da aziende con iniziative strutturate di bilanciamento tra famiglia e lavoro, con un aumento della produttività che potrebbe aiutare a ridurre il divario retributivo di genere.
Un aspetto che induce ad una maggior fiducia è dato dal fatto che ormai quasi il 60% dei titoli universitari in Europa sono ad appannaggio delle donne e questo dovrebbe suscitare un lento ma graduale mutamento della società nei prossimi anni.
In Italia permangono ostacoli di fatto nell’accesso ad alcune professioni: se il numero di donne in posti apicali è cresciuto nell’amministrazione, nelle risorse umane e nel marketing, rimane basso in tutte le aree della produzione e nella finanza aziendale. Eppure le laureate non hanno nulla da invidiare ai colleghi maschi in fatto di preparazione e di capacità.
Uno studio di Sodexo su 50.000 manager internazionali rivela che è sempre più diffusa la percezione della scarsa validità di leadership dai forti tratti maschili nel mercato attuale caratterizzato dalla crescita del potere d’acquisto femminile, dall’influenza di Internet sui modelli di business ed il cambiamento negli atteggiamenti dei giovani verso il lavoro, la vita familiare ed i consumi.
Determinazione, laboriosità ed intuito sono le qualità più riconosciute alle donne manager, ma gli uomini in azienda sembrano accorgersene poco, in particolare per l’impatto sulla produttività e sull’innovazione, benché quest’ultima rappresenti una delle chiavi della sopravvivenza e dello sviluppo delle aziende italiane nel mondo globalizzato.

Smart working

La possibilità per i lavoratori e le lavoratrici di organizzare la propria attività autonomamente in termini di orari, luoghi e produzione può portare, secondo il Politecnico di Milano, ad un aumento della produttività del 15%, attraverso la riduzione dei tempi e costi di trasferimento, ma soprattutto della motivazione. 
Una situazione analoga riguarda la presenza di asili nido all'interno delle aziende: si tratta di una pratica tanto preziosa per chi lavora nelle aree urbane, implementata già in diverse grandi aziende (Unicredit, Cartasì, Direct Line...).
Infine i flexible benefits possono rappresentare un passo avanti nella strada della conciliazione vita-lavoro. Si tratta di programmi di retribuzione flessibile che comprendono beni o servizi normalmente acquistati per far fronte ad esigenze personali e familiari e possono comprendere abbonamenti a spettacoli, a palestre, corsi di formazione o polizze sanitarie integrative.
Il quadro rappresentato dalla ricerca ci fa concludere sull'importanza di diffondere in azienda strumenti di welfare e nuovi modelli di organizzazione improntati alla flessibilità.


Di seguito il video integrale di tre ore dell'evento

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