Riflessioni di un giovane manager
DI intervista Davide Ceper, manager (quarantenne), consigliere ALDAI-Federmanager, con sette anni d’esperienza in Brasile, desideroso di contribuire allo sviluppo economico e sociale del nostro paese sulla base dell’etica, della meritocrazia e una forte attenzione alla componente umana nella gestione d’impresa, specialmente in quest’epoca di grandi cambiamenti portati dalle nuove tecnologie.
Quali sono stati i fattori determinanti per il tuo sviluppo manageriale?
Ho iniziato la mia carriera in consulenza manageriale nel 2005 presso McKinsey Italia, dove ho lavorato per due anni prima di trasferirmi all’ufficio brasiliano, dopo aver conseguito un MBA alla Columbia University. Nel 2015 ho deciso che era tempo di avventurarsi nel mondo dell’impresa e ho colto l’occasione accettando il ruolo di Direttore Commerciale di Isagro, un’azienda agrochimica a forte vocazione innovativa (spendiamo circa il 10% del fatturato in R&D). I fattori determinanti per il mio sviluppo manageriale sono stati l’internazionalità, il mentoring e l’imprenditorialità.
Quali contributi hai dato alle imprese e quale percezione hai lasciato ai tuoi collaboratori?
L’esperienza in McKinsey mi ha insegnato l’importanza - per qualunque organizzazione – di avere una base di valori condivisi che costituiscano l’amalgama della società. Un valore in cui credo molto è la cosiddetta “accountability”, cioè la capacità di delegare e rendere ogni collaboratore responsabile dei propri risultati, ma senza abbandonarli a sé stessi. Per quanto riguarda la percezione dei miei collaboratori, posso solo dire di essermi sempre sforzato di adottare uno stile di leadership “inclusivo”, ascoltando sempre con attenzione prima di prendere posizione e cercando di mantenere la massima obiettività nella valutazione della performance.
Pensi che la tua esperienza internazionale sia utile all’impresa per la quale lavori?
Sono convinto che il mio background in questo senso sia stato un elemento determinante per Isagro: la nostra azienda genera più dell’80% del fatturato fuori dall’Italia, abbiamo una decina di uffici commerciali sparsi nei 5 continenti, una fabbrica in India e circa metà dei collaboratori del nostro Gruppo sono stranieri. La capacità di stabilire relazioni di fiducia con clienti, fornitori, colleghi e partner industriali portatori di culture a volte profondamente diverse dalla nostra è un elemento fondamentale per lo svolgimento del mio lavoro.
Cosa manca in Italia per competere efficacemente a livello globale?
Non mi sento sufficientemente preparato per dare una risposta completa ad un tema così complesso, ma posso azzardare qualche commento sulla base della mia esperienza personale legata in particolare al nostro settore. A mio avviso l’Italia è svantaggiata su quattro dimensioni principali:
- In primo luogo, le dimensioni contano. Il sistema produttivo italiano - caratterizzato da aziende di medie o piccole dimensioni - ha tenuto bene fintanto che la concorrenza si misurava su scala nazionale o continentale. Nel momento in cui il mercato diventa globale, ci si trova a competere con aziende dalle risorse pressoché illimitate, talvolta avvantaggiate da politiche protezioniste che favoriscono la creazione di extra profitti sul mercato interno da reinvestire all’estero (penso al caso delle aziende giapponesi nostre concorrenti), rendendo la sfida veramente impari.
- In secondo luogo, penso che la nostra leadership politica negli ultimi 40 anni abbia brillato per la sua incapacità di aiutare la nostra economia a “fare sistema”. Manca una visione chiara di quello che l’Italia vuole rappresentare nel mondo, su quali punti di forza vuole puntare e se ci confrontiamo con paesi come la Francia o la Germania - che hanno apparati di supporto al settore produttivo molto più efficaci - lo svantaggio diventa evidente. Mi ha colpito molto anche un grafico che mostrava come il livello di produttività dell’Italia sia rimasto inchiodato ai valori del 2000 mentre in Europa è aumentato del 15% nello stesso periodo. Significa che non siamo riusciti ad abbandonare il vecchio modello della “svalutazione competitiva” pur avendo perso l’indipendenza valutaria, e ne stiamo vedendo le conseguenze con la perdita di competitività che ha portato all’acquisizione progressiva di molte aziende italiane di prestigio da parte di gruppi stranieri. La lentezza cronica nell’implementare riforme economiche (e politiche) a lungo andare porterà un prezzo sempre più alto da pagare.
- Il terzo fattore che vedo è profondamente correlato ai precedenti due e riguarda la difficoltà cronica del paese a trattenere e sviluppare il capitale umano. Si discute tantissimo di meritocrazia e opportunità per i giovani, ma bisogna anche chiedersi per quale motivo un giovane brillante oggi dovrebbe restare in Italia, quando può trovare opportunità di lavoro in qualunque parte del mondo con una facilità impensabile 10-15 anni fa (penso all’ubiquità di piattaforme come LinkedIn, o ai network di alunni delle università). Qualche iniziativa coraggiosa in questo senso c’è stata, come la legge bipartisan per il “rientro dei cervelli” appena rinnovata, ma bisogna ancora lavorare tantissimo sulla “professionalizzazione” della gestione delle aziende familiari, sulla meritocrazia, sulle opportunità di crescita professionale, altrimenti sarà difficile trattenere i talenti, e questo è un vero delitto, perché secondo me l’Italia offre una qualità della vita tra le migliori del mondo, soprattutto in una città come Milano che ha saputo reinventarsi radicalmente negli ultimi anni. Infine, occorre considerare che la capacità di attrarre talenti dall’estero è altrettanto importante e su questo fronte negli ultimi due anni abbiamo fatto passi indietro, trasformando la diversità in un disvalore e proiettando all’estero l’immagine di un paese chiuso, rendendolo meno attrattivo per manager, ricercatori, imprenditori e professionisti che altrimenti potrebbero considerare l’Italia come una valida destinazione, contribuendo a rendere il nostro paese più competitivo nel mondo.
- Come ultimo elemento vorrei citare la scarsa propensione all’investimento nella cosiddetta “economia della conoscenza”. Nonostante l’Italia sforni alcune delle menti più brillanti nel campo della ricerca scientifica, il nostro paese spende in R&S quasi la metà della media europea in rapporto al PIL. Il controllo di tecnologie innovative o di piattaforme digitali a grande diffusione porta enormi vantaggi competitivi (basti notare il potere di influenza degli Stati Uniti grazie alle aziende della Silicon Valley) e su questo punto temo che l’Italia sia condannata a inseguire molto da lontano i concorrenti.
Quali sono gli aspetti positivi e negativi dell’essere cittadini e manager del mondo in Italia?
Tra gli aspetti positivi considero la capacità di valorizzare la diversità (culturale e non solo), l’abitudine a gestire situazioni impreviste o incerte e la possibilità di contare su un network esteso e variegato. Di negativo – forse – la maggior facilità di confronto con il mondo esterno. Il che, a volte, è un po’ demoralizzante.
01 settembre 2019