Intervista ad Antonio Agnifili direttore Supply Chain di Sanofi in Italia

Come i manager vivono le sfide del cambiamento continuo. Intervista Dirigenti Industria.

Buongiorno Antonio, quale responsabilità manageriale hai in Sanofi?

Sono ingegnere elettronico di formazione; 25 anni fa ho scoperto quasi casualmente il mondo della Supply Chain e ne sono rimasto folgorato. Dall’anno 2000 lavoro per Sanofi S.r.l., filiale italiana del Gruppo Biofarmaceutico globale Sanofi, e sono responsabile della Supply Chain Italia. 

Sanofi è un'azienda della salute, innovativa e globale, guidata da uno scopo: inseguire i miracoli della scienza per migliorare la vita delle persone. In Italia, Sanofi è una delle principali aziende farmaceutiche per presenza industriale e numero di collaboratori - oltre 2.000 dipendenti, di cui più della metà occupati nel comparto industriale. Sanofi ha in Italia tre stabilimenti produttivi - a Origgio (VA), Anagni (FR) e Scoppito (AQ) - ognuno contraddistinto da una specifica specializzazione. Quotidianamente coordino le attività di previsione della domanda, rifornimento dei depositi dagli stabilimenti e distribuzione dei nostri farmaci verso più di 15.000 punti di consegna.
Da 22 anni lavoro nel settore farmaceutico ed ho alternato posizioni nelle cosiddette “operations” e posizioni di coordinamento e controllo acquisendo una visione ampia e trasversale sulla Supply Chain farmaceutica. Ho anche avuto l’opportunità di fare due esperienze all’estero, 3 anni in Francia dal 2004 al 2007 e quasi 5 anni in Germania dal 2014 al 2018 confrontandomi con culture e abitudini diverse.

“Annus horribilis” è il modo in cui è commentato l'ultimo di una serie di anni difficili; quali sono state le ricadute sul tuo lavoro?

A partire dall’anno 2011 più volte ho eseguito l’esercizio di “business continuity planning (BCP)” ma mai avevo immaginato la situazione che si è improvvisamente creata nel febbraio 2020 con la pandemia SARS Cov-2 e l’imposizione del lockdown a livello nazionale. Devo confessare che, nonostante la formazione ricevuta, non ero preparato né psicologicamente né tecnicamente ad affrontare una situazione del genere e ho dovuto improvvisare giorno per giorno muovendomi su un terreno nuovo e sconosciuto.

Ricordo quando venerdì 21 febbraio 2020 è stata proclamata la prima “zona rossa” a Codogno, che si trova a pochi chilometri dal nostro centro distributivo principale; ho trascorso il fine settimana successivo in continuo contatto con il management del nostro partner logistico per riorganizzare le operazioni distributive, non sapendo quanti lavoratori avrebbero potuto raggiungere il posto di lavoro il lunedì.

Il passaggio “brutale” al lavoro da remoto imposto dal lockdown nazionale ha rappresentato una sfida enorme per noi manager. Sanofi era stata lungimirante avendo già attivato dal 2014 un programma di smart working per i dipendenti, ma io non ero culturalmente maturo per abbracciare il nuovo modello lavorativo basato sul raggiungimento degli obiettivi e non più sulla presenza. 

La mia squadra ha avuto una risposta impeccabile e commovente alle sfide poste dalla pandemia; molto probabilmente siamo stati aiutati dall’altissimo senso di responsabilità (“sense of purpose”) derivante dal ruolo centrale giocato da un’azienda farmaceutica nel contesto di una crisi sanitaria globale. Questo aspetto è stato esasperato dopo qualche settimana dalle notizie diffuse dai media sul presunto potenziale terapeutico nella cura della sindrome da SARS Cov-2 di una molecola del nostro portafoglio (idrossiclorochina). Nel giro di 24-36 ore ci siamo ritrovati a fronteggiare una domanda del mercato “impazzita” (moltiplicata per un fattore 10 o 20) e continue chiamate al nostro numero verde di farmacisti e pazienti alla ricerca disperata del farmaco toccasana. In 10 giorni abbiamo ingaggiato un’azienda esterna per gestire le chiamate in arrivo e abbiamo impiegato (su base volontaria) circa 70 colleghi dell’Informazione Scientifica per dialogare con farmacisti e pazienti spiegando la situazione. È stato un momento indimenticabile di solidarietà tra funzioni normalmente molto distanti nell’operatività quotidiana.

La seconda fase di questo biennio molto sfidante è iniziata nel tardo autunno del 2021 quando si sono manifestati diffusi e ricorrenti problemi di rifornimento per i nostri farmaci. La produzione dei farmaci è un’attività “inerentemente rischiosa” e per questo il nostro settore opera con scorte di sicurezza più elevate. Siamo abituati a gestire situazioni di carenza legate a problemi produttivi o di qualità, ma circoscritti a determinate famiglie di prodotti e con una chiara origine e un piano di azione sotto la nostra responsabilità. Al contrario, in questi mesi ho dovuto fronteggiare una situazione senza precedenti: prima la carenza di alcune materie prime e più recentemente la crisi energetica hanno reso imprevedibili i tempi di rifornimento da parte degli stabilimenti. Negli ultimi mesi, con cadenza regolare, ho dovuto dichiarare la carenza di specialità medicinali a causa della ritardata consegna dei materiali di confezionamento secondario (astuccio in cartone e "bugiardino") o del foglio di plastica o alluminio utilizzati per la produzione dei “blister”. In una parola, mi sono ritrovato immerso nel mondo del “VUCA” (Volatility, Uncertainty, Complexity and Ambiguity) e nuovamente ho dovuto improvvisare attingendo al buon senso e cercando di semplificare la lettura della realtà esterna per i miei collaboratori.

Quali sono, in prospettiva, le principali minacce per l’attività del dirigente?

Nel nuovo contesto economico e sociale che si è delineato a partire dalla primavera 2020 il ruolo del manager è cambiato profondamente con una forte valorizzazione delle cosiddette “soft skills” richieste ai Dirigenti d’Azienda. 

Nel comparto delle medie e grandi aziende private, la pandemia ha accelerato l’adozione dello smart working e sono convito che non sarà possibile un ritorno alla situazione antecedente al 2020. 

Oggi devo relazionarmi con un team che non è più concentrato in uno spazio fisico e temporale delimitato (ufficio + orario di lavoro predefinito) e, in questo contesto dispersivo, è essenziale riuscire a comunicare efficacemente le priorità e motivare i collaboratori. Per esempio, fino al 2019 io avevo uno stile di management basato sulla creazione di momenti informali di colloquio individuale con i collaboratori: spesso programmavo una pausa caffè o pranzo con i miei collaboratori non rispettando la gerarchia; se mi incontravo con un collaboratore non necessariamente coinvolgevo anche il suo responsabile diretto, pur mantenendo sempre un perfetto allineamento su scopo ed esiti del colloquio. 

Con la pandemia e l’adozione diffusa dello smart working è evidente come queste occasioni siano svanite o si siano fortemente rarefatte e, quindi, ho dovuto ridefinire il mio protocollo manageriale abbracciando le tecnologie digitali (WhatsApp, Teams, ecc…). 

L'azienda ci ha fornito un tempestivo sostegno formativo e già nella tarda primavera del 2020 ha organizzato una serie di seminari per fornirci degli spunti di riflessione sullo stile manageriale e gli strumenti disponibili in un contesto di smart working. Io ne ho tratto ispirazione e ho organizzato il cosiddetto “Fun on Friday”, ovvero un momento di incontro per l’intero team (90’ al mese) in cui si gioca e ci si confronta liberamente su tematiche rigorosamente non lavorative.

Aggiungo un particolare: inizialmente ho ingaggiato un’agenzia esterna per animare questi momenti mensili di socializzazione; successivamente, siamo passati all’autogestione, ovvero un piccolo gruppo di volontari ha organizzato un gioco di ruolo per tutti i partecipanti e questo è stato fortemente apprezzato da tutti i collaboratori. 

All’interno della aziende multinazionali le organizzazioni si stanno progressivamente “liquefacendo” e questo pone una naturale sfida ai manager che vedono moltiplicarsi a dismisura i loro riferimenti nel reticolo organizzativo globale. Nel 1992 quando ho iniziato il mio percorso professionale in una grande azienda parastatale (Italtel, Gruppo STET), si dibatteva ancora sull’introduzione della cosiddetta organizzazione matriciale dove le risorse erano inquadrate in un reticolo bidimensionale tra la dimensione gerarchica locale e la dimensione funzionale (eventualmente globale). Oggi siamo passati a un reticolo multidimensionale in cui spesso il manager ha riferimenti multipli collocati nell'organizzazione locale, nei Centri di Competenza / Eccellenza, nei progetti, negli “swat team”. La sfida per i manager è la conciliazione di priorità e linee guida indicate dai diversi coordinatori. Arlecchino tradizionalmente serviva 2 padroni, ma il nostro povero manager arriva a servirne anche 5 o 6 contemporaneamente…!?

Volendo sintetizzare quanto esposto, la minaccia principale per un manager è l’incapacità di immedesimarsi nel nuovo ruolo di motivatore, comunicatore, coach nonché mediatore/equilibratore tra i suoi coordinatori abbandonando il ruolo tradizionale di guida tecnico-operativa e controllore del proprio team.

I cambiamenti e le difficoltà implicano problemi, ma anche opportunità; quali sono le opportunità per il manager d’azienda?

Ai giorni nostri il manager è in larga misura sollevato da compiti di controllo e guida operativa del Team in quanto i collaboratori operano in un perimetro spazio-temporale ampio e sono responsabilizzati e guidati da obiettivi individuali. Quindi il manager può dedicarsi alle attività di guida strategica. 

Operare in modo strategico significa: identificare obiettivi chiari che siano allineati con i target aziendali e la “mission” della propria funzione; comunicarli e spiegarli ai propri collaboratori; concentrare gli sforzi di tutto il team nel cercare di conseguirli; dotarsi di indicatori che permettano di capire se si è sulla strada giusta. 

Nel contesto dello smart working, gli obiettivi del team dovranno essere declinati per ciascun sottogruppo e collaboratore in obiettivi individuali concreti e misurabili. Il costante dialogo bidirezionale con i collaboratori diventa cruciale per verificare la rotta di navigazione e imprimere eventualmente le correzioni ritenute necessarie.

Quali sono le iniziative prioritarie per dare una svolta nella direzione dello sviluppo economico e sociale del Paese?

Notoriamente, l’Italia è un Paese orientato alla manifattura e ai servizi, non potendo contare su significative risorse naturali. Nel contesto attuale della crisi energetica innescata dalla guerra russo-ucraina, dovremmo proteggere e sostenere le filiere produttive dei settori industriali ritenuti strategici per il Paese: agro-alimentare, turismo, moda, arredamento, meccanica e farmaceutico. Alcuni marchi bandiera del Made-in-Italy (penso ad Armani / Dolce & Gabbana o a Maserati / Ducati) non avrebbero raggiunto il livello di notorietà e successo di cui godono se non avessero potuto contare su una rete di piccole e micro-aziende che forniscono loro semi-lavorati o servizi. Dobbiamo proteggere queste aziende che essendo sottodimensionate sono finanziariamente più deboli ed esposte alle turbolenze attuali.
Sul medio periodo, la sfida maggiore per il nostro Paese è trovare un punto di equilibrio tra l’esigenza inderogabile di equilibrio finanziario nella gestione previdenziale INPS e la necessità di ringiovanire il capitale umano delle aziende con l’introduzione di professionalità pronte ad affrontare le sfide della digitalizzazione (i cosiddetti “nativi digitali”). Da un lato avremmo la necessità di prolungare la vita lavorativa dei lavoratori più maturi (ritardandone il pensionamento) e dall’altro vorremmo iniettare forze fresche e culturalmente attrezzate per combattere la sfida della digitalizzazione delle nostre aziende, chiamiamola pure “Manifattura 4.0 o 5.0”. Sulla base della mia recente esperienza in Germania, penso che una misura adeguata ad affrontare questa duplice sfida possa essere la cosiddetta “staffetta generazionale”: quando un lavoratore maturo ha raggiunto una certa età, diciamo ad esempio i 62 o 63 anni, può accedere a una forma di “pensionamento part-time”, ovvero la sua presenza al lavoro si ridurrà progressivamente all’80% - 60% - 40%. Parallelamente, il datore di lavoro assumerà un giovane e glielo affiancherà in modo che possa realizzarsi pienamente il travaso delle competenze dal lavoratore pensionando al giovane. Lo Stato dovrebbe supportare questo processo con degli sgravi contributivi per entrambi i protagonisti di questa staffetta in modo che il lavoratore anziano non soffra di penalizzazioni sulla futura pensione pur riducendo la sua presenza negli ultimi anni di lavoro.

Un altro tema chiave per il nostro Paese è sicuramente l’avvicinamento del mondo dell’educazione al mondo del lavoro. Attualmente esiste ancora un profondo fossato che separa il mondo dell’educazione dalle Aziende e i nostri giovani si ritrovano per lo più a muovere i loro primi e timidi passi nel mondo del lavoro dopo i 25-28 anni, quando invece i loro coetanei francesi o tedeschi iniziano il loro percorso in azienda a 20-21 anni e, pertanto, hanno la possibilità di raggiungere posizioni manageriali entro i 30 anni.

In questo contesto, vedo con estremo favore il rilancio dell’Istruzione Tecnica Superiore come percorso educativo terziario alternativo all’Università. All’inizio del XIX secolo, con l’esperienza promossa da San Giovanni Bosco, noi italiani siamo stati pionieri nel campo della formazione tecnica e professionale, ma poi anche a seguito di alcuni eccessi degli anni Novanta e primi anni Duemila, la formazione tecnico-professionale è stata progressivamente dimenticata / sotto-finanziata e conseguentemente ci siamo trovati privi di figure professionali qualificate in alcuni settori come la meccanica, la meccatronica o l’ebanisteria. È essenziale offrire ai giovani che non sono portati per lo studio teorico dei percorsi formativi che siano più orientati sullo sviluppo delle competenze tecnico-professionali, sul modello delle Hochschule tedesche.

Da ultimo, un commento sul Decreto Dignità che nell’intento di promuovere la stabilizzazione dei lavoratori precari ha irrigidito in modo eccessivo il sistema di reclutamento. In alcuni settori produttivi la formazione dei neoassunti (preliminare al loro inserimento in reparto) ha una durata superiore a 6 mesi e fino a 12-15 mesi. Il Decreto Dignità prevede che un giovane non possa essere reclutato con un contratto temporaneo (diretto o mediato da un’agenzia di lavoro interinale) per più di 12 mesi e comunque non oltre 24 mesi, e questo periodo è largamente insufficiente per incentivare le aziende all’investimento formativo dei neoassunti. Senza alcuna visione ideologica / partitica ritengo che il cosiddetto “jobs act” promosso precedentemente dall’esecutivo Renzi fosse molto più rispondente alle esigenze del mondo imprenditoriale e favorisse al tempo stesso la formazione dei giovani neodiplomati o neolaureati. In una parola, non si creano opportunità di lavoro creando dei vincoli rigidi ma piuttosto facilitando l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.

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